Comunicazione & Media - Società

La "lotta" a che?
Le foto contro l’anoressia, che meno male che qualcuno ci ha pensato

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(Aggiornamento 2024: pubblicai in un mio vecchio blog nel gennaio 2012 questo articolo, qui piuttosto riveduto nella forma: un sito molto attivo nella cosiddetta “lotta all’anoressia” si limitò a leggere il titolo e, male intepretandone l’ironia, lo rilanciò un’ora dopo. L’indomani qualcuno deve aver segnalato il malinteso e quel sito ha cancellato l’articolo. Per dire i riflessi condizionati)


Cercando su Google le immagini di una campagna che ho visto qua e là nella rete, digito “foto contro anoressia”.
Dalle prime due voci del motore di ricerca saltano fuori due immagini molto diverse. Una è quella che vedete qui accanto, la seconda è la seguente:

Credo che le conosciate.
La prima ritrae Katya Zharkova, modella di girovita — diciamo — abbondante, che posa per una campagna di una rivista per taglie forti e che decide di lanciare una iniziativa “contro l’anoressia” (infatti è il servizio che stavo cercando, è la notizia di questi giorni).
La seconda mostra Isabelle Caro nel famoso scatto di Oliviero Toscani: anche qui una foto commerciale, che serve per promuovere un prodotto. Ma Toscani è convinto che il contesto sia negoziabile, che provare a forzarlo, a infiltrarlo, sia parte del lavoro del comunicatore, e che abbia senso usare le sue foto pubblicitarie per dire delle cose che con i calzoni e le magliette non c’entrano niente. Nel caso di questa foto, ci spiegò che l’intenzione era proprio quella di mostrare le orribili conseguenze del digiuno estremo.

Niente di strano?
Guarda un po’: l’immagine di una modella dalle misure generose e quella di un’altra ai limiti della consunzione (e infatti non molto tempo dopo aver posato per quella foto sarebbe morta, a ventotto anni di età e dopo sedici di limitazione radicale dell’alimentazione), sono presentate entrambe come immagini che dovrebbero “combattere” l’anoressia.
Come è possibile che da due stimoli dai contenuti opposti ci si aspetti che abbiano la stessa finalità di dissuadere le ragazzine dalle diete patologiche? Solo io ho l’impressione che qualcosa sia dato per scontato? Non è che si tratta di una di quelle faccende sensibili sulle quali si può dire quel che si vuole senza sentire il bisogno di confortarlo con argomenti, perché quel che si richiede è che sia appena un po’ vibrante di sdegno?
Voglio dire: come è possibile che l’immagine di una ragazza grassottella e quella di una donna esangue e scheletrica abbiano lo stesso effetto? Il buon senso è il primo avversario di questa pretesa.

Beh, si dirà, una foto è lì per attrarre e provocare invidia, l’altra respinge perché incute orrore e raccapriccio. Bene. Cominciamo a ragionare. Le immagini possono suscitare certi comportamenti, ma anche quelli opposti. Ha senso. Dunque ci sta anche che due foto così diverse possano avere la stessa finalità: una attraverso l’ammirazione, l’altra attraverso la repulsione.
Però, come si fa ad essere sicuri che quella foto abbia l’effetto che si desidera, e non l’altro? Perché chi ha un minimo di conoscenza di queste faccende, sa che immagini di corpi burrosi sono per un’anoressica il primo incentivo a buttare via il panino al prosciutto e farsi una tisana. Mentre le immagini della sopravvivenza che sfida l’annullamento fisico possono rappresentare una provocazione irresistibile.

Sì, ma è inutile stare a cavillare: d’altra parte lo sanno tutti che le indossatrici magre sono responsabili della diffusione dell’anoressia. Lo dicono tutti i programmi della televisione e di tanto in tanto gli stilisti fanno una sfilata sopra la taglia 42 per dimostrare la propria buona fede.
Se l’idea è così largamente condivisa, ci sarà una ragione.
Sì, ma anche qui: in che modo hanno questo effetto? Com’è che funziona?
Dice: costituiscono un modello che le ragazze imitano.
Sì. Ma come mai imitano proprio quello? Perché è egemone, dice.
Ah ecco: si impone perché è vincente. Che è una tautologia, ma facciamo pure che questa risposta abbia senso: allora, se veramente quel modello magro è così dominante nella società, come mai non passa giorno che qualche voce non lo condanni o che qualche quotidiano non richiami i sarti alla ragionevolezza o che qualche programma tv non gli dichiari guerra o che qualche esperto, insieme al’opinione pubblica, non dichiari che è il male assoluto?
Non ho voglia di discutere: mettiamo anche ci siano ottime ragioni per credere che quel modello sia così forte e l’identificazione in esso così attraente. Ma cosa fa sì che in tanti casi l’adesione ad esso vada così oltre esso stesso, addirittura fino all’autodistruzione?
Niente, non ne veniamo a capo.

In generale, enunciare un problema che preoccupa molte persone e attribuirgli un responsabile (meglio se questo appartiene a una classe di persone distante da noi, che non frequentiamo personalmente e che magari disapproviamo per il loro stile di vita o altre ragioni) è un’operazione che incontra facilmente favore e approvazione. Ha a che fare con la costruzione del capro espiatorio.
Se poi quella categoria di persone non ha nessuna intenzione di mettersi a discutere perché in fin dei conti tutto diventa articoli e foto sui giornali, il gioco è fatto. (Sì, c’entrano gli affari; non più nobili né meno di quelli per cui una rivista di moda per taglie forti fotografa una modella robusta affermando che si tratta di una campagna benefica contro una piaga sociale).

Io credo, e lo scrivevo — insieme alla coautrice Adriana Valle — anche in questo libro, che la storia ormai universalmente condivisa e raccontata in tutte le salse che l’anoressia è incoraggiata dalle fotomodelle magre, sia una pericolosa semplificazione. Una semplificazione che non spiega la determinazione con cui tante ragazze perseguono un così pericoloso progetto di assimilazione a quel modello. Insomma, come mai è così potente e attraente?
Per spiegarla, è necessario vedere una escalation simmetrica. In italiano: una sfida, una competizione, una lotta sempre più accesa e senza quartiere con un “altro”. Solo nell’escalation della relazione con un altro si può arrivare a estremi così autodistruttivi.
Simmetria con chi, con cosa? Con un altro modello contrario, per esempio. Fra i modelli di corpo che si propongono alle donne c’è Kate Moss, ma c’è anche quello florido e più casereccio incarnato, per dirne una, da Antonella Clerici. D’altra parte, quando si dice che il modello astinente è così vincente, non si fa caso a un altro dato: accanto alla chirurgia plastica riduttiva aumentano in misura non marginale le richieste di interventi additivi.

Io penso che non ci sia un modello che ha vinto, piuttosto esistono due modelli in competizione, uno storicamente e culturalmente ben piantato nell’immaginario, e un altro di acquisizione più recente. Allora, quando condanniamo quel modello come fuorviante, non stiamo indicando una soluzione: stiamo proprio dentro al problema. Ne siamo parte. Quando diciamo “non dovresti essere come sei, ecco invece come dovresti essere”, ci siamo dentro fino al collo. Quelle foto che stanno girando la rete fanno proprio questo: sostengono un modello contro un altro. Questa non è la soluzione: è esattamente la regola delle relazioni dentro le quali vive l’anoressica. Perpetuano lo stesso meccanismo della sfida che l’anoressica conduce ogni giorno. Niente di diverso.

Ricorrere a una metafora bellica (si parla di “combattere” l’anoressia così come si parla, ad esempio, di “lotta” alla droga) genera un contesto poco collaborativo. Accade in una cornice culturale a cui non appartiene l’idea di coltivare il benessere e il piacere nella diversità: le appartiene costruire problemi che sacrificano delle persone e poi cercare soluzioni che ne crocifiggono delle altre. Quelle donne delle foto non sono donne; non sono corpi: sono modelli che si contrappongono a un altro modello. Accanto alla foto di Repubblica che ho messo all’inizio c’è scritto: “Bella, sensuale, irresistibile: il miglior manifesto contro l’anoressia si chiama Katya Zharkova” eccetera. Quella donna è un “manifesto” contro qualcosa.
Se la cultura fosse aperta alla molteplicità dei modelli possibili (non uno, non due: dieci, quindici, tutti quelli che si possono immaginare), non avrebbe senso pubblicare immagini di corpi “per combattere l’anoressia”. Con quei corpi avremmo confidenza, sarebbero normali. Filiformi o pieni, diafani o rosei: sarebbero corpi.
Quando divulghiamo foto di corpi per proporli come manifesti “per combattere l’anoressia”, ci siamo dentro, siamo impegnati in quella simmetria.

Allora io penso che la questione dei modelli, così apparentemente astratta, non sia poi tanto distante dalle vite delle persone perché sembra proprio lo specchio delle relazioni che si muovono intorno all’anoressica, in famiglia, fra gli amici, a scuola (e a volte, anche in terapia…). Attraverso quelle voci, attraverso quella simmetria, è anche la cultura a parlare, con le sue premesse e le sue regole.