Riprendo il discorso iniziato qui, dove commentavo la notizia di una proposta di legge punitiva nei confronti di siti che esaltano i comportamenti anoressici, e spiegavo che le soluzioni indicate, sebbene di forte attrattiva per chi condivida l’indignazione verso certe comunicazioni, mi appaiono complicare il problema anziché risolverlo.
Ho preso a prestito l’espressione “terribili semplificatori” dello storico Jacob Burckhardt, che usava questa espressione per pronosticare l’avvento di personaggi che avrebbero offerto diagnosi e soluzioni e di facile consenso ai grandi problemi, con tanti saluti alla ragionevolezza e alla comprensione del mondo.
Io, per capirci, non penso che sia per forza una “terribile semplificazione” il cercare soluzioni rapide a problemi complessi, e non penso che la complessità coincida necessariamente con processi lunghi e laboriosi.
Per esempio, certe volte uno sguardo complesso ti porta a scoprire che un problema è insolubile perché nel tuo modo di guardarlo fai qualcosa che lo blinda dentro certi limiti. Nel momento in cui scopri che il problema è il modo in cui guardi, può accadere qualcosa che semplifica parecchio, e con una certa rapidità, il quadro della situazione.
Scriveva tempo fa sul “Fatto Quotidiano” Pierfrancesco Pellizzetti che:
i terribili semplificatori spiegano che la politica non è “un lento trapanare tavole dure” (Max Weber), bensì trovata che risolve tutto in un oplà.
Io penso invece che, se l’effetto delle “terribili semplificazioni” è talvolta quello di farla troppo facile, altrettanto spesso sia quello di cercare soluzioni più lunghe e faticose del necessario, di assecondare il senso comune che fa coincidere il complesso col complicato. E penso anzi che un pensiero complesso sia capace talvolta di aprire vie agevoli alle soluzioni. Insomma: non credo che il complesso richieda di fare “più cose” o “trapanare tavole dure”; semplicemente, richiede di pensare diversamente, di cercare un po’ più in là e qualche volta di guardare quello che abbiamo sotto il naso, che è a portata di mano ma semplicemente non è previsto nel nostro modo di impostare quel problema.
Insomma, dicevo nel post precedente che c’è questo e-book che si chiama “Non fate i bravi”, che prende quel personaggio televisivo che risponde al nome di Tata Lucia come un emblema di questo pensiero semplificato. Per cui la felicità si ottiene facendo la “cosa giusta”, le relazioni umane sono questione di “gestire” qualcun altro e i problemi complessi si risolvono con due o tre buoni consigli.
Ora potete scegliere di abbandonare la lettura di questo post e andare a scaricare l’e-book, oppure arrivare alla fine e poi andare a procuravelo. Fate come volete ma leggetelo. Quello che dovete sapere è che si preleva dal sito Psychiatryonline a questa pagina, è curato da Claudia Boscolo, ha la prefazione di Maddalena Mapelli ed è gratis.
Ecco, non avendo mai visto il programma di Tata Lucia sono andato a cercare informazioni su Youtube. Ho cominciato dalle interviste al personaggio, che, circondato di bambini perfettamente adeguati che rispondono in impeccabile unisono alle domande del presentatore, dà consigli e racconta storie di infanzia ribelle (davvero? Anche la Tata è stata una bambina rompicoglioni? Sì, a confermare ancora una volta la teoria che per capire le cose “devi esserci passato”).
Sono andato a cercarmi anche le puntate della serie televisiva. Ne ho presa una a caso per farmi un’idea. Giuro: a caso. Dunque non pensate che mi sia messo a cercare a bella posta quella che più si prestasse a fare le pulci.
Ho preso il video di una puntata su una famiglia milanese con mamma italiana, papà brasiliano e quattro figli da tre a dodici anni. Scene di ordinaria quotidianità: i ragazzini che fanno casino, litigano, si sfidano, se ne dicono di cotte e di crude. Nessun rischio per l’incolumità, ma chiunque converrebbe che sono per lo meno rumorosi.
È chiaro che quando prendiamo per buona quella narrazione decidiamo di partecipare a un gioco. Non è la realtà, è una costruzione alla quale accordiamo il nostro consenso. Di solito nelle nostre case non c’è una troupe televisiva a riprendere i figli in condizioni “normali”. Se ci fosse, quella condizioni non sarebbero più normali. Dunque assistiamo a quelle interazioni facendo finta che la presenza di un certo numero di telecamere e di teleoperatori non abbia nessun effetto sul comprensibile esibizionismo di questi quattro ragazzini. E facciamo anche finta che quello che vediamo non sia un montaggio sapiente ad uso televisivo di sequenza selezionate fra un certo numero di ore di riprese. Facciamo che non sia uno show televisivo, ma la vita vera. A queste condizioni, il gioco funziona.
Per inciso: sorvolando su questa ovvietà, ci avevano venduto la prima stagione del “Grande Fratello” come uno spregiudicato esperimento sociologico: avremmo assistito alle “naturali” interazioni di un certo numero di individui in una condizione estrema, come essere isolati tutti insieme in una casa. Vabbè.
Per stare al gioco dobbiamo dunque rinunciare a una certa quota di complessità e accettare una drastica semplificazione: quello che vediamo sono le cose, indipendentemente da chi le guarda e ce le racconta. E quello che guardiamo non lo guardiamo dentro una cornice che determina cosa vedere. Quattro ragazzini di età diverse che ridono, si azzuffano, si contendono attenzioni e giochi, nella cornice di un programma TV su come disciplinare i figli, diventano un “problema da gestire”.
Come che sia, la storia a cui assistiamo è quella di una famiglia in cui i genitori soffrono per non riuscire a controllare la vivacità dei figli, con una madre stanca e preoccupata e un padre che quando il gioco si fa duro si rifugia nella sua stanza, in mezzo agli spartiti di musica brasiliana, ad esercitarsi nella pratica della chitarra.
Uno stacco e siamo nel quartier generale delle tate. Nel cortile irrorato da un raggio di sole, un certo numero di bambini giocano a palla, o sull’altalena, o sulla bicicletta. Vengono in mente i bambini dell’Isola che non c’è, bambini senza storia e senza famiglia che hanno trovato un luogo utopico dove pedalare e saltellare nella gioia, lontani dalle brutture del mondo, comprese mamme che urlano inutilmente, incapaci di “gestirli”.
Ma suona la sirena e le tre tate si muovono in formazione a cuneo – la posa e il cipiglio da Charlie’s Angels – per ritrovarsi a riunione intorno a un tavolo per l’assegnazione del caso. Tata Adriana – la più giovane, con accento anglosassone – ha le idee chiare: è un tipico problema di “mancanza di regole”. Dunque se ne occuperà lei. (Nelle edizioni recenti del programma, alla protagonista si sono affiancate altre tate, esattamente secondo la regola delle fiction televisive in cui il numero dei personaggi intorno ai quali gira la storia deve crescere di stagione in stagione, per portare sempre novità per lo spettatore che segue da anni; un formato così blindato, poi, ha davvero bisogno di essere rinfrescato per essere sempre attraente).
Ad ogni modo, tata Adriana viene accolta fra l’entusiasmo generale nella famiglia delle quattro pesti e svolge il suo periodo di “osservazione”, durante il quale fa cose come assistere in piedi, da un angolo della stanza, all’ora del pasto, scuotendo il capo e prendendo appunti. Al termine, esprime la sua diagnosi: “In questa casa tutti si muovono come fantasmi, non interagiscono”. Che suona paradossale, proprio dopo che la tata ha prescritto a tutta la famiglia di fare “come se lei non ci fosse”, di fare le loro cose facendo finta di non notare la sua presenza. Nel gioco in cui le regole le fanno le tate, a loro è lecito quello che per gli altri è immorale o patologico (“fare il fantasma”).
A questo punto la tata convoca i genitori per un briefing, e comunica loro di aver trovato una situazione piuttosto caotica, anzi una “disorganizzazione generale”. La mamma l’ascolta annuendo e conclude sconsolata: “Sì, questo è proprio brasiliano“.
Alt! Fermi tutti! Ma questa è una storia bellissima! Due modelli di educazione, la complessità di una famiglia multiculturale, premesse e visioni del mondo diverse che si incontrano e qualche volta entrano in conflitto, insomma: ne può uscire una grande puntata sull’ascolto reciproco e sull’accettazione della differenza. Grazie alle tate.
E invece, mentre non a caso la mamma appare sempre più sicura di sé e il papà sempre più imbarazzato e all’angolo, la tata Adriana taglia corto: “eh sì, ma qui siamo in Italia” (detto peraltro con delizioso accento britannico).
Perché la complessità è bella, ci mancherebbe, ma la puntata dura tre quarti d’ora scarsi e la teletata efficiente ha sempre una risposta saggia: “qua siamo in Italia!”, il papà dovrebbe capirlo meglio e fare il piacere di integrarsi, e tutto il resto son solo complicazioni inopportune.
Il seguito della puntata continua fra istruzioni della tata ai genitori e ai figli, prescrizioni di nuove “regole”: più rispetto, più abbracci, eccetera (la premessa, anche questa piuttosto semplice, è che le persone facciano delle cose semplicemente perché gli dici di farle), fino alla trovata conclusiva: se il papà usa la musica per appartarsi e sfuggire a una situazione che non sa come gestire (ancora più ridotto all’angolo, probabilmente, dopo la sentenza “qui siamo in Italia”), perché non fare in modo che proprio la musica diventi un punto di incontro con i figli? Che non è per niente una brutta idea: che questi ragazzi possano conoscere qualcosa di più del mondo del papà, quel mondo che trova spazio solo dietro il buco di quella chiave, quel mondo che forse conoscono poco e che li riguarda tanto.
Così si organizza un concerto: si trova un basso elettrico, l’oratorio ci metterà la sala e il pubblico, la tata presenterà la serata.
Il papà suonerà la sua chitarra finalmente fuori dalla sua stanza, e i ragazzi lo accompagneranno e canteranno che ne so, “La ragazza di Ipanema” o qualche canzone di Chico Buarque o di qualcun altro.
Niente di tutto questo. Si canta “La canzone del sole” di Battisti e il papà suona il tamburello, ché d’altra parte “qui siamo in Italia”!
Ecco, l’ho presa alla lontana perché volevo segnalarvi questo e-book, “Non fate i bravi”, ma una recensione vera non potevo farvela perché una parte degli autori li amo perdutamente da quasi sempre, e per gli altri – che non conosco personalmente – vale la proprietà transitiva.
Però ve lo consiglio perché mi pare un buon modo di contrastare la semplificazione dominante, la voglia di normalizzazione: non limitandosi a criticarla, come magari ho fatto io in questi due post, ma partendo da tata Lucia per farla diventare un ipertesto, per complessificare il discorso e moltiplicarlo in tante direzioni possibili.
Lo potete scaricare in pdf (i singoli capitoli) o in epub (tutto intero) da qui! Buona lettura!