Pubblico anche qui l’intervista a Jacqueline Pereira Boscolo, uscita col titolo “Luigi Boscolo, Mr. Happy Go Lucky” sul n. 35 di Connessioni (qui l’e-book). La moglie di uno dei Maestri del Milan Approach ha risposto alle mie domande ripercorrendo il periodo trascorso a New York – negli anni Sessanta – condiviso anche con Gianfranco Cecchin.
Un capitolo poco raccontato della storia di Luigi Boscolo è quello degli anni americani. New York, e in particolare il Greenwich Village, furono l’epicentro di gran parte della cultura della seconda metà del ‘900: Boscolo e Cecchin non ne furono soltanto testimoni, ma vissero immersi per alcuni anni in quel clima irripetibile e si nutrirono degli stimoli culturali e artistici degli anni Sessanta, della musica, della letteratura, dell’arte e di una visione del futuro. Testimone privilegiata di quel capitolo è Jacqueline Pereira, la moglie di Boscolo. Haitiana, lo conobbe proprio a New York negli anni in cui entrambi studiavano per la loro formazione. Da allora sono stati inseparabili.
A lei ho chiesto di raccontarci in che modo quell’esperienza ha contribuito al talento terapeutico di Luigi Boscolo.
Jacqueline Pereira: Senza dubbio Luigi sarebbe d’accordo con me che gli anni vissuti dal 1960 al 1968 siti stati i più belli della nostra vita. Era un periodo magico, ci sentivamo al centro del mondo. I nostri colleghi e amici condividevano un sogno collettivo: non solo la controcultura, ma un desiderio di liberazione dallo status quo, di spiritualità, in un’atmosfera di creatività. Si sentiva in tutta New York, anche se il Greenwich Village era il punto nodale. Non a caso Luigi aveva deciso di vivere lì. Era sempre hyper, curioso, e le lunghe ore di lavoro in ospedale non gli impedivano di uscire appena libero, per frequentare tutti i locali, musei, cinema d’essai…
Massimo Giuliani: Ecco, il lavoro: in quel periodo Luigi stava facendo la specializzazione…
J. P.: Sì, in psichiatria al Metropolitan Hospital e in psicoanalisi al N.Y. Medical College.
M. G.: Ed era già pediatra…
J. P.: Sì, si era specializzato in pediatria in Italia. In America c’era andato per diventare chirurgo pediatra, ma poi quando cominciò con la chirurgia capì che non poteva, non aveva la manualità. Così aveva deciso di cambiare. Era molto entusiasta del suo corso di psichiatria: come ogni straniero che arriva in America, dovette fare un anno di internship. Due mesi in ogni reparto, e dopo i due mesi in medicina interna fu molto apprezzato per la sua grande capacità diagnostica. Era convinto che tante di quelle malattie fossero psicosomatiche: per quello decise di studiare psichiatria. Era la sua tendenza a depatologizzare…
M. G.: Ecco dove comincia…!
J. P.: Lo chiamavano Happy Go Lucky, un’espressione americana usata per descrivere una persona ottimista, che vive secondo il principio del piacere. Lo diceva sempre: “Io vivo secondo il principio del piacere; se un dente mi fa male, lo tolgo!”
Di piaceri ce n’erano tanti: la musica, la letteratura, il cinema, il teatro, la filosofia… prediligeva il jazz, il gospel e il blues di Harlem. Non mi ricordo tutti gli artisti che abbiamo visto dal vivo, ma è stato indimenticabile ascoltare Sarah Vaughan e Odetta. E poi c’era il rock and roll, c’era Elvis Presley…
M. G.: L’avete visto dal vivo?
J. P.: No, purtroppo. Ma c’era musica dappertutto, una cosa fantastica.
Ascoltavamo i dischi di Miles Davis, Dave Brubeck, Duke Ellington, Satchmo, Bob Dylan, Stan Getz, Billie Holiday, Dizzy Gillespie… In letteratura avevamo Jack Kerouac, Norman Mailer, Allen Ginsberg, insomma la Beat generation. Leggevamo filosofi come Marcuse e Russell.
Un evento indimenticabile fu una jam session in Quebec. Non lasciano entrare facilmente nelle jam session, ma partecipava mio fratello Fritz, che suonava il sassofono, e grazie a lui entrammo. Pura euforia. Non so come descriverlo, sembrava una follia collettiva. Tutti erano come in un’altra sfera. Preparavano molto bene le loro jam session, ma da un certo momento sembrava tutto spontaneo. Si accordavano sulle parti da seguire, così mi diceva mio fratello…

M. G.: Voi quanto eravate coinvolti in quella cultura? La vivevate come non-americani spettatori di quel momento straordinario, o vi sentivate dentro quel fermento?
J. P.: Dentro. Avevamo gli stessi desideri. Martin Luther King aveva appena detto “I have a dream”. Sembrava che tutti, all’epoca, avessero un sogno. E noi non ci sentivamo né americani né stranieri: ci sentivamo dentro quel sogno, tutti cittadini del mondo.
M. G.: Secondo te tutto questo, sull’arte di Luigi Boscolo, su Boscolo terapeuta, che influenza ha avuto?
J. P.: È difficile dire… credo che questo ottimismo, questa voglia di conoscere, di vivere, siano rimasti nel suo lavoro. E anche il desiderio di depatologizzare, di quando lavorava in medicina interna. Luigi vedeva sempre l’effetto della famiglia nella malattia del paziente. Ne parlavamo spesso. E per questo lui diceva molte di queste cose non sono chiare ai medici: loro curano un sintomo, ma non vedono tutto il resto. Anche per quello cambiò facoltà.
E per quello ebbe un’esperienza importante, molto importante, con Nathan Ackerman. Lavoravano sulla famiglia, era il… 1965? Fra il 1963 e il 1965, credo. Frequentava già le specializzazioni, faceva contemporaneamente psicoanalisi e psichiatria. In quel periodo Ackerman decise di fare la terapia familare, e per Luigi fu molto importante. Cominciò a credere ancora di più nell’influenza di altri fattori nella malattia fisica. Per quello, quando incontrò Mara (Selvini Palazzoli, ndr) ne parlarono e lei gli disse: “sono d’accordo con te!”.
M. G.: Dove si incontrarono?
J. P.: Luigi aveva un maestro che era Silvano Arieti. Silvano lo invitava spesso perché era italiano come lui, anche se lui era diventato totalmente americano.
Aveva un nipote psichiatra che faceva il corso con Luigi. Si chiamava Jules Bemporad, In psichiatria erano tutti ebrei, Luigi era l’unico non ebreo. Una volta gli misero in testa una kippah, e con una cerimonia improvvisata lo fecero ebreo!
Era un gruppo molto affiatato. Jules e Luigi erano molto amici. Arieti invitava sempre Luigi a queste feste, e fu lì che vide Mara per la prima volta. Era stata invitata per presentare il suo libro sull’anoressia nervosa, e la stessa sera Arieti fece una festa. C’eravamo anche noi. Lì Mara propose a Luigi di provare insieme a fare la terapia familiare secondo il modello psicoanalitico quando fosse andato a Milano. Di lì sarebbe nato il primo gruppo di psicoanalisti che avrebbe provato a fare la terapia con la famiglia. Alcuni poi se ne sarebbero andati, e Luigi avrebbe chiamato Franco.
M. G.: Franco…?
J. P.: Gianfranco Cecchin! Lo chiamavamo Franco. Sua moglie lo chiamava Gian, io Franco. Luigi lo chiamava Ciccio, ma a Gianfranco non piaceva…
M. G.: Cecchin era al Village con voi in quel periodo?
J. P.: Sì! Cecchin era venuto a vivere con Luigi al Village, dividevano l’appartamento. Fino a che un giorno Cecchin chiese a Elisabeth di pregare Luigi di darlo a lui. Parlavano di sposarsi, anche se poi in realtà si sposarono qualche anno dopo. Luigi e Gianfranco avevano un appartamento in ospedale, ma Luigi ci viveva solo quando era di guardia. Gli piaceva vivere fuori dall’ospedale, così prese un altro appartamento. Vicino all’ospedale, ma fuori.
M. G.: Tu dov’eri nel frattempo?
J. P.: Io avevo un appartamento con mia sorella al centro di Manhattan, nella via più bella, la 57esima strada. Era un appartamento fantastico, facevamo feste e andavamo anche molto in giro. In quel periodo ho conosciuto l’opera. Era Luigi che ci portava ad ascoltarla.
A Manhattan c’era un ospedale dove Luigi lavorava. Gianfranco invece lavorava al Westchester Hospital, a nord di New York City, a un’ora dalla città. Io mi stavo specializzando al Westchester, e lì incontrai Elisabeth, la futura moglie di Cecchin. Alla fine del master in dietoterapia e nutrizione andai al Babies Hospital di Manhattan, della Columbia University. Elisabeth mi seguì e prendemmo un appartamento insieme. L’avevo presentata a Gianfranco, e Gianfranco mi aveva presentato Luigi. Frequentavamo altre coppie che la pensavano come noi e avevano i nostri stessi interessi. Andavamo spesso in giro. Erano tutti psichiatri, la gente che frequentavamo al lavoro. Frequentavamo un cinema d’essai, il Thalia — penso sia ancora lì — dove vedevamo i più bei film italiani, francesi, inglesi in lingua originale.
Franco e Luigi erano piuttosto complementari, legati da un amore fraterno. Luigi era il primogenito e Franco il minore, come nelle loro famiglie d’origine. Franco si sentiva protetto da Luigi, che lo frenava quando passava i limiti. Gli diceva sempre: “frena, Ciccio, frena!”. Ad esempio, avevano tutt’e due delle automobili che compravano di seconda o terza mano con pochissimi dollari e che erano tutte da rottamare. Duravano poco, infatti. I soldi servivano per la specializzazione, e anche un po’ per i piaceri. A New York ci sono mezzi di trasporto, le macchine servivano per andare in giro nel Maine, o in Canada. Ecco, eravamo un po’ incosc… eravamo giovani e pieni di energie. Magari ci sentivamo così perché eravamo giovani, non so se a questa età avremmo avuto le stesse emozioni. A quell’epoca eravamo scatenati. E un giorno Franco decide di attraversare gli Stati Uniti da est a ovest con una di quelle macchine…
M. G.: …sulla Route 66?
J. P.: Sì. Con Elisabeth e la benedizione di Luigi. Chiedeva sempre il suo parere. E il suo fratello maggiore diceva: “Va bene, vai”. “Vieni anche tu?”, domandò Franco, ma Luigi aveva degli impegni in ospedale. Dopo tre o quattro giorni ricevemmo una telefonata di Franco, che disse “mi sono rimasti dieci centesimi per la telefonata e la macchina non va più! Venite a prendermi”. E Luigi rispose “aspetta, e spera che la mia funzioni!”. È andata bene, come sempre.
Anche se Luigi aveva dato a Franco l’appartamento al Village, ci andavamo sempre. La domenica mettevamo della musica, ci sedevamo in terra e ascoltavamo, leggevamo libri.
I libri e i dischi che avevamo lì erano tutti in comune. Le discussioni erano interessanti, al centro c’era l’analisi di quello che succedeva nel mondo della cultura.
Dormivamo poco, la vita ci sembrava molto breve. Anche perché c’era pure il lavoro. Ma non ci pesava, eravamo entusiasti. Infatti qualche volta Luigi andava di notte in Bowery Street, a guadagnare qualche soldo. È dove vanno gli alcolisti — dove muoiono gli alcolisti. Faceva il moonlighting, anche Franco credo lo facesse a volte. Vuol dire lavorare di notte, illuminati dalla luna. Luigi faceva molte di queste notti: i libri costavano molto, e l’analisi didattica gli costava 75 dollari l’ora. Per tre volte alla settimana! Per non restare senza soldi lavorava di notte, e gli piaceva. Anche in questa esperienza, che credevo fosse pesante per lui, si divertiva. Diceva: “è un’esperienza che mi ha fatto capire il mondo americano”. Lo mandavano anche a certificare le morti.
C’erano delle grandi stanze dove accoglievano tutti questi etilisti e mostravano film o partite di baseball. Quando lo mandavano a verificare un decesso in quella sala, andava con un amico, un neurochirurgo. Dovevano avere una torcia, si muovevano nel buio. Chi aveva la testa china probabilmente era morto. Si aggiravano con la torcia e cercavano chi avesse la testa china. Lì incontrava gente con molti problemi, difficoltà di ogni tipo, e gli piaceva. Si sono divertiti, anche nella Bowery.
M. G.: Come una fame di conoscenza di tutte le condizioni umane…
J. P.: Oh, sì. Collaborò anche con una clinica privata dove i ricchi mettevano i loro figli adolescenti problematici per imbottirli di farmaci. Lavorò anche lì in quel periodo, per bisogno di soldi, ma fece scappare dei ragazzi. Era furioso, aiutò due o tre di loro, delle ragazze che gli dissero “meglio il manicomio statale, qua siamo destinati a morire”. Non avevano nessuna libertà di nessun genere. Non era possibile alcuna terapia, erano degli zombie.
M. G.: Dunque la sensibilità culturale andava insieme a una forte attenzione alla politica, al piano sociale…
J. P.: Quegli anni erano cominciati con Kennedy. Era un’epoca di sogni, tutti credevano in un cambiamento, nella possibilità di rendere il mondo più vivibile. Al centro c’era la condizione sociale delle persone, il modo in cui questa rivoluzione poteva migliorare il loro modo di vivere. Poi morì Kennedy, ci furono le guerre. Eravamo fortemente contro la guerra, c’erano manifestazioni e molti di noi partecipavano.
Così nel 1967 Luigi disse che non voleva più stare negli USA. Le cose stavano cambiando di nuovo, ma in senso negativo. C’era il Vietnam, e comunque lui voleva tornare in Italia e cominciare a lavorare. Avrebbe avuto delle buone occasioni di lavoro, saremmo stati tranquilli, ma disse che preferiva tornare in Italia per dedicarsi a quel progetto della terapia familiare con Mara.
Partimmo per Milano. Per tre giorni alla settimana lavoravano senza guadagnare niente. All’inizio si vedevano in via Keplero, dove Mara aveva un appartamento libero. Poi Sant’Ambrogio, poi la nipote di Mara ci trovò l’appartamento in via Leopardi. Nel ’70, credo… Cecchin arrivò nel ’71. Poi nel ’72 hanno letto Bateson. E hanno cambiato tutto.