Disseminazioni - Psicologia & psicoterapia

Da "Il seme e l'albero"
Luigi Boscolo e un’idea di responsabilità (questo mi ricorda una storia…)

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In occasione del decennale della morte di Luigi Boscolo recupero un mio articolo pubblicato sul sito “Il seme e l’albero” della Fondazione Istituto Andrea Devoto. Il sito è offline e il contributo non è più reperibile.
(La foto di apertura è di Diego Terazzi).

1. Due pensieri. Anzi, tre

Luigi Boscolo lo conobbi una sera verso la fine degli anni Novanta. Non ero più giovanissimo, ma nel corso del decennio avevo letto i libri che aveva scritto insieme a Paolo Bertrando (il monumentale “I tempi del tempo”, Boscolo e Bertrando, 1993; “Terapia sistemica individuale”, Boscolo e Bertrando, 1996) e li avevo trovati così illuminanti, che avrebbero indirizzato gran parte delle mie scelte professionali degli anni successivi. Compresa quella di tornare a Milano a riprendere la mia formazione.

Avevo già alle spalle una formazione sistemica alla terapia della famiglia (l’idea che le persone stanno bene o stanno male per questioni che le connettono alle altre persone l’avevo assunta ormai da anni come un assioma), ma avevo colto nel tempo che la profondità dello sguardo dei Maestri nasceva dal fatto che tutti avevano prima conosciuto altre strade, per lo più quella della psicoanalisi. Avevo dunque deciso di percorrere la strada a ritroso fino ai fondamenti della psicologia psicoanalitica, per poi poter tornare a Milano a riprendere dall’inizio — dai cinque assiomi della comunicazione — la formazione sistemica. Scelsi di riprenderla al Centro Milanese di Terapia della Famiglia di via Leopardi, dove la lettura di quei libri mi aveva indirizzato. (Nel periodo immediatamente successivo avrei letto anche i libri di Gianfranco Cecchin, e il loro impatto su di me sarebbe stato di uguale intensità, ma in quel momento chi aveva avuto la forza di riportarmi a Milano erano quei due robusti volumi ormai più che consumati dalle letture ripetute e meditate.)

Essere accolto al Centro da Boscolo insieme a un gruppo di aspiranti allievi come me, e ascoltarlo parlare, fu un’esperienza entusiasmante e sconcertante insieme. Quella sera ripartii da Milano cercando di spiegarmi due pensieri piuttosto insistenti, che non riuscivo a comprendere completamente.

Il primo: c’era una distanza considerevole fra il Luigi Boscolo che mi ero immaginato e quello che incontrai. Non assomigliava affatto allo studioso di cui mi ero fatto un ritratto mentale attraverso i suoi libri. Aveva un carisma e  un’autorevolezza di un genere che non mi aspettavo, e che gli derivavano da qualcosa che non sapevo definire. E non riguardava soltanto la corporatura imponente, che pure la sua parte l’aveva.

Il secondo: avevo fatto la cosa giusta (deviare negli anni precedenti il mio percorso formativo per abitare un altro pensiero almeno per un periodo della mia vita), ma per ragioni che sospettavo essere completamente diverse da quelle che mi ero dato all’inizio. Le ragioni dettate dalle mie voci interne — precipitato delle voci dei colleghi di formazione, di quelli più esperti e degli insegnanti — erano state del tipo: “più ne sai e meglio è”; oppure: “come fai a fare lo psicologo senza conoscere la diagnosi?”; o ancora: “il linguaggio più diffuso è quello della psicoanalisi, bisogna impararlo e parlarlo”. Tutte ragionevoli (se si sorvola sul fatto che l’ultima, così formulata, continua a sembrarmi di ispirazione vagamente colonialista: devi conoscere e possibilmente fare tuo il pensiero prevalente; e perché? Ma perché è prevalente!). Tutte giuste, ma ad un tratto avevo il sospetto che ci fosse qualcosa di più.

E poi c’era un terzo pensiero, che era un pensiero su questi due pensieri: e cioè che fossero in qualche modo collegati fra loro. E che anche quel modo mi fosse piuttosto nebuloso ma che avesse a che fare con qualcosa che andava anche parecchio oltre la psicoterapia.

2. Dall’osservazione dei sistemi all’osservazione dell’osservatore (The Times They Are a-Changin’)

Luigi Boscolo è scomparso nello scorso gennaio, e la terapia sistemica nata dalla tradizione milanese ha perso l’ultimo dei suoi Maestri.

Dieci anni prima ci aveva lasciato Gianfranco Cecchin, che con Boscolo aveva condiviso un pezzo di vita a cominciare dall’amicizia che li aveva visti crescere insieme, per continuare con la formazione negli Stati Uniti fino all’esperienza della terapia sistemica a Milano col deciso abbandono della psicoanalisi. Nel 1980 insieme avevano lasciato il gruppo di Mara Selvini Palazzoli — il gruppo di Paradosso e controparadosso (Selvini Palazzoli et al., 1975) — per cominciare a fare formazione con professionisti della clinica e dei servizi sociali alla terapia sistemica della famiglia (si veda Bertrando e Toffanetti, 2000). Mara Selvini continuò con Giuliana Prata la propria ricerca sulle determinanti relazionali e familiari della follia e del disturbo alimentare. L’una sentiva il bisogno di consolidare la propria conoscenza, gli altri probabilmente fremevano dalla voglia di prendere un nuovo aereo e incontrare voci diverse. Boscolo e Cecchin erano tornati dagli Stati Uniti per dedicarsi all’avventura con Mara Selvini e, del quartetto, erano forse i due soggetti inquieti, che avevano visto il mondo e mal sopportavano la vita stanziale e quasi monacale del ricercatore.

Secondo me nella loro biografia c’è un altro dato importante, la cui incidenza sulla loro inquietudine e sulla loro voglia di cambiamento è ancora tutta da valutare: non solo si erano formati come psichiatri e psicoanalisti fuori dall’Italia, ma avevano vissuto, in un periodo che non era un periodo qualunque, in un posto che dal punto di vista della vita culturale e dell’impatto sul mondo intero, non era un posto come un altro.

Vivere alla metà degli anni Sessanta nel Greenwich Village — il quartiere di New York che da Broadway si estende fino al fiume Hudson, e dove peraltro Boscolo conobbe Jacqueline Pereira che arrivava da Haiti e che sarebbe diventata sua moglie — significava respirare l’aria di un luogo in cui le arti proliferavano, e la ricchezza della tradizione — nella musica e nella letteratura innanzitutto — conviveva con una forte urgenza di nuovo. Per capirci meglio: al Greenwich di quegli anni Bob Dylan maturava la cosiddetta “svolta elettrica” che lo portò nel 1965 ad essere contestato dai puristi del folk ma anche a incidere due album da cui la musica sarebbe ripartita per direzioni che fino ad allora erano state impensabili. Alla fine del decennio precedente il Village era stato uno dei luoghi simbolo della Beat Generation, con la presenza di scrittori che vi avevano preso casa, o che per lo meno ne frequentavano assiduamente i locali: Ginsberg, Ferlinghetti, Burroughs, lo stesso Kerouac nel Greenwich e nel confinante East Village sperimentavano linguaggi nuovi che regalavano alla parlata colloquiale il ritmo della musica jazz. Per via degli affitti convenienti, nel quartiere affluivano sia artisti locali che studenti provenienti da fuori. Parliamo di un posto e di un momento storico in cui si faceva strada la convinzione che le cose erano quelle che erano, ma nulla impediva che potessero anche essere differenti.

E al di là di quanto Luigi Boscolo potesse essere interessato a quei movimenti — quel che so per certo è che è stato un buon ascoltatore di jazz — nei suoi racconti recenti di quegli anni sorrideva spesso dello shock vissuto da un giovane cresciuto nella provincia italiana, lenta e tradizionalista, davanti all’attrazione di qualcosa che per lui era così nuova e inconsueta.

Fra le cause della scissione del 1980 c’è probabilmente una crescente divergenza sul piano epistemologico, che è possibile intuire dall’ultimo articolo firmato insieme. Il fondamentale “Ipotizzazione, circolarità, neutralità” (Selvini Palazzoli et al., 1980) risente di una costante ambiguità intorno al significato di “ipotizzazione”, che di volta in volta rimanda al metodo sperimentale e al criterio di verificabilità delle ipotesi, oppure a un processo di continua produzione di versioni della realtà, dove la verificabilità e la falsificabilità non hanno lo scopo di giungere a una teoria, ma soltanto quello di mantenere aperto quel processo di produzione di idee. Quella divergenza verrà a sua volta amplificata dagli effetti della scissione. Raccontano infatti Boscolo e Cecchin (in Semboloni, s. d.) che i professionisti che incontravano in giro per il mondo, o che arrivano a Milano per vederli lavorare e apprendere quel modo di fare terapia, con loro grande sorpresa erano meno interessati ai pattern e ai funzionamenti delle famiglie che alla loro esperienza: “Mentre noi parlavamo sempre di famiglie, gli allievi parlavano dei terapeuti, per cui siamo stati costretti a osservare i nostri comportamenti”.

La spinta ad autoosservarsi nel proprio lavoro e a considerarsi interni al processo osservato fu una grande occasione per sviluppare quella attitudine che poi, con l’incontro con Maturana e von Foerster, ebbe un’adeguata cornice teorica ed epistemologica nel paradigma della cibernetica di secondo ordine.

3. Una rete di idee

Il pensiero di Boscolo e di Cecchin del periodo successivo alla scissione del primo gruppo milanese fu abbondantemente influenzato da Gregory Bateson: quello delle opere pubblicate in Italia da Adelphi, finalmente, e non più quello che ci era arrivato filtrato e deformato dalle terapie strategiche nate al MRI Palo Alto (Watzlawick et al., 1967).

Quando Boscolo spiegava la teoria che usava, faceva pensare al Bateson di “Perché racconti delle storie?” (Bateson e Bateson, 1989). In quel metalogo, alla figlia che gli domanda come mai si esprima spesso attraverso storie, Bateson risponde con una storiella: quella di un tale che vuole comprendere il modo di pensare di un calcolatore e perciò gli domanda: “Calcoli che penserai mai come un essere umano?”. La macchina si mette al lavoro e gli risponde con un foglio di carta stampato, che dice: “questo mi ricorda una storia”. Insomma, pensare come un essere umano non è se non pensare per storie. E quando Boscolo parlava del proprio lavoro, raccontava la terapia di Milano come un percorso che andava dallo studio approfondito di Palo Alto, dal periodo di Paradosso e controparadosso e della cibernetica di primo ordine, a quella di secondo ordine, al costruttivismo, fino alla narrativa, al cosiddetto “post-Milano”, al decostruttivismo. Non poteva raccontarla che come una storia, e trovava sterile qualunque riduzione a uno solo dei momenti di quella storia. Pur da affascinante e talentoso narratore (Giuliani, 2014), non gli andava giù una visione appiattita sulle storie, sulla narrativa e sulla conversazione. In questo era fortemente sintonizzato col Bateson che raccomandava una visione binoculare della realtà, cioè l’uso di una doppia descrizione  (Bateson, 1984): essere dotati di due occhi potrebbe apparire come uno straordinario spreco. Dunque, se abbiamo due retine innervate e un chiasma ottico con i suoi complessi percorsi di ridistribuzione delle informazioni, tutto questo deve comportare un formidabile vantaggio evolutivo. Il confronto tra i dati raccolti da un occhio e quelli forniti dall’altro costruisce la dimensione della profondità, perché non mostra solo “cose”, ma differenze: e quelle differenze producono una mappa tridimensionale della realtà che un solo occhio, per quanto si sforzi di guardare bene, non avrà mai.

In un seminario condotto a Bologna nel 1992, Boscolo proponeva una metafora batesoniana:

“(…) la metafora di più occhi. E credo che sia coerente col paradigma della complessità, secondo il quale c’è una rete di teorie che ha più la possibilità di dare una visione più comprensiva, che si avvicina a “ciò che può essere” il mondo esterno. Quindi io questa rete di teoria le vedrei una rete di esperienze, rete di teorie attraverso le quali io sono passato nella mia esperienza di terapeuta e ricercatore (…) A me piace molto la metafora di Bateson, quando dice ‘con due occhi vedi più che con un occhio’. Perché vedi una dimensione, vedi la profondità. ‘Two ponts of view are better than one’, due punti di vista sono migliori di uno. E anche tre punti di vista, o quattro punti di vista possono essere migliori di uno. E a questo punto, delle esperienze che ho avuto fino adesso, nel momento in cui leggo la realtà che mi sta di fronte, posso utilizzare questi diversi occhi. Allora posso utilizzare l’occhio della prima cibernetica, e pensare al sistema osservato come se fosse staccato dall’osservatore; poi con l’occhio della cibernetica di secondo ordine; con ‘occhio del costruttivismo; con l’occhio [che vede] le relazioni umane nel senso di patterns, come si vedevano ai tempi di Watzlawick e di Paradosso e controparadosso; oppure nel modo che va per la maggiore adesso: vederle nel senso di storie: i pazienti, i clienti, vengono con una storia e in qualche modo, nel contatto col terapeuta o col consulente vengono a emergere delle storie alternative. (…) Io credo che sia importante imparare molto bene una teoria; conoscere bene la relazione tra premesse e tecnica di una teoria, tra il pensiero e il fare; conoscer e, in un certo senso, i limiti, i boundaries della teoria stessa; avere un’idea dell’ortodossia (…) Però poi, conosciuta questa, essa non è nient’altro che una lente con cui vediamo il mondo esterno. E ogni lente vede una certa cosa e non ne vede altre. Come una teoria, che è una rete che prende certi pesci ma non ne prende degli altri .” (Boscolo, in Boscolo e Cecchin, 1992)

Attenzione, perché il discorso si proietta ben al di là della stanza di terapia e si pone delle ambizioni ben più ampie che fornire una cornice teorica per il microcontesto della relazione clinica. Qua si parla della responsabilità di chi osservi la realtà — nei suoi vari livelli di contesto — e si ponga l’obiettivo di capirne qualcosa per incidere su di essa in un modo il più possibile responsabile ed eticamente accettabile.

E dunque: in una prospettiva di complessità (Bocchi e Ceruti, 1985), guardare il mondo e le relazioni con una sola lente non basta. È quello che fa dire a Boscolo e Bertrando (1996) che pensare sistemico oggi significa avere una cornice olistica in grado di accogliere più punti di vista. Ma la questione è: se osservo il mondo attraverso più teorie all’interno di altrettante cornici riduzionistiche, qual è l’elemento unificante? Cos’è che connette e dà senso a questa molteplicità di punti di vista? Cosa fa di tutte quelle voci accolte nella “cornice olistica” una polifonia organizzata anziché un frastuono da cui non emerge senso?

La risposta a questa seconda questione è: sono io — terapeuta, ricercatore, studioso, osservatore insomma —  con la mia storia umana e professionale.

Scrivevano gli autori, a proposito del lavoro nei servizi, in cui convivono professioni e formazioni differenti:

“È un contesto simile a quello delle società multiculturali e multietniche, in cui non è più lecito richiedere a ogni gruppo di annullarsi nel crogiolo dei valori comuni (il melting pot), ma è necessario accettare che ogni posizione sia presente in una sorta di insalatiera culturale (la salad bowl). (…) Secondo noi è possibile trovare una coerenza e un minimo denominatore comune tra i diversi linguaggi delle varie teorie, sviluppando così un metalinguaggio che ci permetta di lavorare con le nostre differenze rispettando tutti gli altri che lavorano con noi” (Boscolo e Bertando, ivi, p. 38)

È un modo di vedere le cose che vale anche per il dialogo interno fra i vari “sé” e le varie lenti che possiede un osservatore. Pearce (1998) direbbe che quel “metalinguaggio” è più una questione di coordinamento che di coerenza. Per ottenere coerenza, è necessario che ogni punto di vista rinunci a qualcosa di sé. Il coordinamento, al contrario, è un modo di comporre punti di vista che non richiede un sacrificio, ma la disponibilità a tollerare differenze. La “rete di teorie” di cui parlava Boscolo non richiede l’annullamento di qualcuna di esse in favore di altre.

Sempre in quel libro, Boscolo e Bertrando introducono una concetto che, sulle prime, può provocare un certo smarrimento. A me lo provocò: si trattava pur sempre del terapeuta che aveva, con altri, condotto il movimento sistemico attraverso alcuni decisivi salti di paradigma! Che, col gruppo di Paradosso e controparadosso, aveva promosso una presa di distanza dal modello analitico, come Watzlawick e gli altri di Palo Alto stavano facendo negli Stati Uniti. E che ora, invece, suggeriva una prospettiva epigenetica in cui invece di negare o mettere da parte quel che è venuto prima, un buon modo di procedere è quello di vedere le idee come stratificate, con le nuove che si appoggiano sulle precedenti; proponeva, in fin dei conti, di sacrificare un po’ della chiarezza delle posizioni a quanto di buono accumulato nel corso del tempo.

Una rete di teorie che mi permetta di vedere più cose è certamente coerente con l’imperativo etico di von Foerster, per il quale l’etica è strettamente connessa a una scelta epistemologica (“Agirò sempre in modo da accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”: si veda Bertrando e Bianciardi, 2006).

Questa posizione mi rende ad esempio possibile scegliere in un particolare momento del processo in cui ne abbia bisogno — magari per sciogliere una impasse — una prospettiva altra, che magari mi è stata utile in passato, per poi tornare nella mia teoria preferita. È questo movimento di entrare e uscire da una teoria, che differenzia questo approccio epigenetico da una banale mescolanza eclettica di modelli. Se conosco le differenze fra le diverse prospettive da cui mi pongo, so anche quando assumerne una e perché, e fino a quando. E se le prospettive fra cui scelgo di volta in volta sono quelle che ho conosciuto, o mi sono state utili, o mi hanno emozionato in passato, allora forse sarà pur eccessivo dire che il mio modello coincide con la mia storia, ma certo la mia biografia non è semplicemente la lavagna sulla quale scrivo la mia teoria — e della cui pulizia devo preoccuparmi, affinché la teoria e l’azione siano scritte più chiaro possibile. Essa è un testo che con la mia teoria si intreccia in un ipertesto in continua evoluzione (Giuliani, in Giuliani e Nascimbene, 2009).

A proposito, allora, di quei due pensieri (anzi, tre)

Dunque in una visione epigenetica del sé professionale, nessuna fotografia può render conto della complessa rete di punti di vista e modi di essere che costituisce l’osservatore.

Certamente, il ritratto mentale che mi ero fatto dell’autore che sarebbe diventato il mio maestro era influenzato dal fatto che nella stesura di quei libri il contributo del coautore Paolo Bertrando, in termini di sistematizzazione del pensiero, aveva un peso importante; e probabilmente c’entravano anche le mie precedenti esperienze di incontro con clinici e autori vari. Ma il rigore etico e teorico che emerge dalla letteratura che porta il suo nome non definivano, da soli, l’uomo che si poteva incontrare in carne e ossa al Centro Milanese. Altrettanto lo definivano la giovialità e il modo — più conviviale che serioso — che aveva di condividere il proprio sapere e la propria esperienza; lo connotavano il naturale istinto di narratore altrettanto che la lucidità del teorico. E lo spessore dell’esperienza di lavorare con lui nasceva — esattamente come la visione tridimensionale è il prodotto della visione binoculare — proprio nello spazio tra queste differenti dimensioni della sua personalità e della sua storia.

Spesso nell’evoluzione dei modelli teorici, dietro lo schermo del “purismo”, che obbliga a prendere sdegnosamente le distanze dalle idee precedenti, queste ultime sopravvivono come una sorta di “non detto”: qualche volta esso è noto ai teorici, che si limitano a non sottolinearle troppo; altre volte forse resta oscuro persino ad essi, che s’illudono di essersi liberati di una eredità del passato: e invece spesso quel “non detto” contiene la parte che rende più efficaci le terapie (si veda Boscolo e Bertrando, 2002, oltre al già citato 1996). Ma, ancora, il “non detto” è anche quel che ci appartiene come individui che fanno parte di una storia, di un gruppo, di una cultura (Schinco, 2002), e che compone il nostro modo di essere terapeuti non meno che le teorie che dichiariamo. È tutto ciò che di implicito stava nel suo modo di raccontare storie: implicito per lui, e misterioso per me che lo leggevo e ne disegnavo un ritratto mentale. Mistero che quella sera in parte si disvelò nel suo accento veneto macchiato qua e là di simpatici anglicismi inconsapevoli, nella sua fisicità affabile e nel suo modo di gesticolare.

Osservandolo negli anni che seguirono cercai la risposta alla seconda questione sorta da quel primo incontro: in che modo si componevano in lui i diversi “strati” della sua storia epigenetica di terapeuta? Si manifestavano, mi parve di poter rispondere a un certo punto, in due modi soprattutto: uno nei contenuti, l’altro — diciamo — nel modo di pensare.

Ad esempio, termini e categorie che risalivano alla sua attività di psicoanalista emergevano all’improvviso nelle sue riflessioni sulle famiglie che vedevamo in terapia. Ci fu un periodo, mentre lo affiancavo come assistente nella mia formazione alla didattica, che mi apparve molto interessato all’uso della categoria del narcisismo. Ma non in funzione di una connotazione diagnostica del paziente al di là dello specchio della stanza di terapia: piuttosto, per descrivere il rapporto peculiare che quella persona aveva col sipario dello specchio unidirezionale e con chi lo guardava, invisibile, al di qua di quello specchio. Era dunque una metafora per parlare di relazioni e del palcoscenico della vita, senza dimenticare mai che lui come osservatore, e noi che da un’altra prospettiva osservavamo l’osservatore nell’atto di osservare, interagivamo — dal palco o dalla platea — nella creazione di quel che osservavamo e che definivamo con una punta di scetticismo “realtà”.

È così che ci insegnava che il modo di pensare di un clinico disponibile ad accogliere dentro di sé tutte le voci, anche dissonanti, che vengono dalla sua storia, è un modo di pensare creativo e rigoroso insieme. Creativo nel muoversi nel setting  e nel linguaggio clinco, rigoroso nella riflessone sulla propria storia e sul proprio modo di guardare.

Dunque, conoscere un pensiero più “tradizionale” per poi costruire sopra qualcosa di nuovo, non è una operazione di addizione (un sapere più un altro sapere fa due saperi) né di sottrazione (se acquisisco un nuovo sapere, cancello quello precedente), ma di moltiplicazione e di elevazione a potenza. Perché ti aiuta a pensare non più per “cose” e “fatti”, ma per differenze e differenze tra differenze: e la realtà non è in uno dei punti di vista che adotti ma nel tuo movimento continuo fra l’uno, l’altro e l’altro ancora di quelli.

Chi ci esortava a studiare la diagnosi per dare al nostro pensiero una base più solida, perdeva di vista che se di basi ne hai più d’una, saranno anche solide — ma diventano soprattutto provvisorie. E a quelli che raccomandavano una “integrazione” — parola ambigua che ritroviamo anche in altri contesti della nostra vita: e quasi mai indica una scoperta reciproca, ma piuttosto una forma di adattamento coatto e unidirezionale — fra modelli per avere una visione del mondo più “veritiera”, sfuggiva che quell’integrazione è un’esperienza personale, autobiografica: che dunque non si può insegnare, perché diversa per ciascuno, ma semmai soltanto incoraggiare.

In tutto questo, quello che si capisce è che considerare la propria storia, e dunque se stessi, come la “lente” attraverso la quale vedere le cose, ha a che fare con l responsabilità. Quella responsabilità che ti porta a dire “questo è quello che vedo io” e che ti insinua il sospetto che forse ben poco si possa affermare se non in prima persona. Che è forse una delle ragioni per cui questo contributo mi è venuto come mi è venuto, e per cui, quando ho cominciato a domandarmi come ricordare Luigi Boscolo per chi non lo ha conosciuto, mi sono accorto che più me lo domandavo e più mi veniva in mente una storia.

Bibliografia

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