Psicologia & psicoterapia

I commenti dei colleghi
Integrazioni ed eclettismi (2) Massimo Schinco: La clinica della psiche è apertura e incompletezza

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Dopo Gianluca Resicato commenta il mio post “Integrazioni, neotecnicismi post-narrativi, amnesie ed eclettismi vecchi e nuoviMassimo Schinco. Ci tenevo e lo aspettavo, considerato che con lui c’è una conversazione in corso da tanti anni. Grazie dunque anche a Massimo Schinco, Psicologo Psicoterapeuta, Senior Advisor presso il Centro Studi Eteropoiesi, Adjunct Professor presso la Scuola del Design del Politecnico di Milano, ex Co-Direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia.
(Qui trovate il post originario e le risposte, pubblicate a mano a mano che arrivano).


Non nutro particolare simpatia per Jean-Paul Sartre, però quando uno segna un bel gol non si guarda in che squadra gioca. E quanto scrive Sartre nella “Critica della Ragione Dialettica” equivale veramente a un bel gol:

“È proprio di ogni ricerca essere indefinita. Definirla e nominarla significa considerarla conclusa: che ne rimane? Un modo finito e già scaduto della cultura, qualcosa come una marca di sapone, in altri termini un’idea”.

Che la autentica forza della clinica della psiche consista nell’essere costantemente in una condizione di apertura e incompletezza non me lo invento certamente io. Mi basta pensare a Karl Jaspers, per fare un esempio di eccellenza.

Allo stesso modo, che l’approccio sistemico sia “in re ipsa” una ricerca sempre aperta, più che un bagaglio di dottrine acquisite, non è certo un’affermazione originale, anzi rischia di essere addirittura pericolosamente scontata.

Tutto ciò però entra in un rapporto perlomeno dialettico con le esigenze della cura: le persone sofferenti richiedono infatti in qualche misura risposte definite, azioni finalizzate (su cui, perlomeno nel caso dele professioni sanitarie riconosciute, la società esercita delle forme di controllo: il controllo richiede forme definite, condizioni sì/no). Ma è già il terapeuta appassionato, prima ancora del paziente e della società, a trovarsi in questa tensione. Non è un fatto negativo però: quanto questa tensione, a volte magari affaticante, possa essere generativa e liberante, per i pazienti come per i curanti, ce lo dimostrano alcuni decenni di storia del movimento sistemico, oltre ad una abbondante e bellissima letteratura.

I guai veri nascono altrove. Il rapporto si fa non solo dialettico, bensì conflittuale e contraddittorio quando clinica ed epistemologia sistemica devono mettersi d’accordo con le esigenze e con le seduzioni del mercato. Appoggiandomi alla metafora sartriana, mi sembra che ciò che si vende e si compra, prima ancora del sapone, sia l’illusione di ciò che si troverà nell’esperienza del sapone, illusione alimentata dal marchio prima ancora che dalla qualità del sapone stesso (per questo utilizzo del termine “illusione” sono in debito con un caro amico, l’economista Franco Becchis). Insomma, ci vuole qualcosa che “buchi” lo schermo. Ora, su chi ha un approccio contraddistinto prevalentemente dalle quantità misurabili e dalla causalità lineare, l’approccio sistemico buca ben poco. Va un po’ meglio se il potenziale acquirente è incline al pensiero artistico… però la sofferenza, e il prendersene cura, a volte sono faccende poco poetiche. La tentazione può essere quella di proporre o di farsi attirare da proposte sdolcinate e annacquate – e quindi inautentiche sul piano clinico ma più facili da vendere o da comprare.

Ciò detto, in che modo governare la propria barca? Temo che le mie conclusioni suonino banali.

Prima di tutto credo che sia decisivo l’aver stabilito, come singoli professionisti ma anche come istituti, una chiara gerarchia di valori. Non posso fare finta che le correnti del mercato – comprese quelle della formazione – e i venti delle mode – comprese quelle culturali – non esistano, però prima viene il senso di ciò che si fa. Insomma, da un punto di vista etico ci sono differenze nel modo di giocare.

Poi, non bisogna stancarsi di mettere in evidenza e far capire le differenze. Se ti offro qualcosa che nella tua percezione ti sembra meno convincente e immediato di qualcos’altro, sta a me cercare di farti capire la differenza. Qui sto pensando ai professionisti in formazione ma anche ai pazienti.

Concludo infine con un ‘altra citazione, questa volta di uno che gioca in una squadra che io sento amica, Jean Guitton: “ragionevole è il nome di colui che sottomette la propria ragione all’esperienza.” Ora, tutti concordiamo (almeno a parole, poi nei fatti è da vedersi…) su quanto sia fondamentale l’ascolto dell’esperienza dei pazienti. Il cammino si fa scosceso quando entra in gioco la ragione del terapeuta, che è come dire la persona del terapeuta. Ce lo siamo detti tante volte: il fondamentale strumento di lavoro del terapeuta sia la sua stessa persona, con quello che ciò implica: storia, amori, disamori, sacrifici, fatiche, sogni per il futuro… come si legge bene nel tuo scritto. Certo: nel tempo tutto (a partire dalle persone e dai loro modelli di riferimento) invecchia, necessita di manutenzione, modifiche, soprattutto confronti con i tempi e ai contesti che cambiano. Anche a dismissione fa parte della realtà. Ma se io avverto che ciò per cui ho lottato e sofferto viene maneggiato con poco rispetto, allora mi sento offeso come persona e terapeuta; per tutelare me stesso e la relazione con i pazienti, come minimo cercherò di mettermi al riparo. A me è successo e non credo solo a me.