In occasione dell’uscita della serie “Sanpa” di Gianluca Neri su Netflix, Silvana Quadrino mi chiese di commentarla per la versione di allora del sito di Change. Gli aspetti orrendi della storia di San Patrignano avevano a che fare con un’idea distorta di cura e ponevano interrogativi sui quali, d’altra parte, si era discusso anche negli anni di maggiore splendore della comunità di Vincenzo Muccioli, che si nutrì del favore da parte di una ampia area della politica italiana. Partendo da lì scrissi alcuni pensieri sugli aspetti etici della cura.
Ripubblico qui l’articolo, che non è più reperibile online.
Ho cominciato a fare il mio mestiere in anni in cui nella terapia sistemica si abbandonavano tecniche strategiche che pure erano state negli anni precedenti straordinariamente efficaci dal punto di vista dei risultati e della rapidità. Prendeva la precedenza una riflessione etica e teorica sul cambiamento, da cui un modo di lavorare magari più lento e meno “spettacolare” sotto il profilo dei risultati, ma che cominciava ad apparire più rispettoso della complessità delle persone, delle relazioni, del mondo.
Quando negli anni — ieri da terapeuta in formazione, oggi da clinico interessato all’evoluzione della pratica sistemica — mi è capitato di parlare con colleghi che avevano partecipato a quella stagione di terapie miracolose con svolte fulminee e sorprendenti, oltre che la motivazione etica del disamore verso quell’approccio mi hanno raccontato soprattutto un’altra ragione, non meno decisiva: quel genere di intervento faceva male ai terapeuti.
Alcuni mi hanno riferito di sintomi psicosomatici, altri di un pericoloso senso di onnipotenza che faceva i conti con il terrore del fallimento e della perdita di quei superpoteri. Per fortuna, da clinici accorti, sapevano riconoscere quel delirio tanto da decidere di lavorare in un altro modo, con altri ritmi, anche a costo di privarsi di quelle percentuali di guarigioni che avevano conosciuto nel periodo precedente (tutti i confronti confermavano, ad esempio, che la percentuale di anoressie “guarite” nel periodo della terapia familiare strategica non si è più raggiunta in seguito, pur restando la terapia della famiglia per molti versi una risorsa insostituibile nei disordini alimentari).
Quando mi trovai con Pietro Barbetta in un seminario a Bergamo a riferire di una ricerca che avevamo condotto (con molti altri colleghi) sulle terapie di quel periodo, una persona della prima fila contestò: ma se il metodo era così efficace, i mal di pancia dei terapeuti saranno pure affar loro! Se funzionava, avevano il dovere di continuare!
L’obiezione era più che comprensibile e Barbetta, giustamente, rispose che però esiste anche un piano etico. Sul piano etico, la domanda è se sia lecito indurre un cambiamento con degli stratagemmi che aggirino la volontà del paziente (sul piano clinico, quelle ricerche ci insegnarono peraltro che intendere per cambiamento l’abbandono del sintomo era assai riduttivo). In definitiva, se possa considerarsi terapia un insieme di pratiche che sottraggono al soggetto la responsabilità e la parola sul proprio cambiamento.
Si tende ad apparentare i disturbi dell’alimentazione alle dipendenze patologiche perché ad esse sarebbero accomunati da alcuni indici clinici e dagli stessi criteri di verifica della diagnosi. Chissà se è un caso che le due questioni siano collegate anche da un altro elemento, stavolta di tipo culturale e “narrativo”, che mi pare anche più rilevante: sembra inevitabile in entrambi i campi l’adozione della metafora della guerra. La “guerra alla droga”, seguita di recente dalla “guerra all’anoressia”, genera una cornice di senso che ha implicazioni persino sul piano della definizione di cura, se è vero che la guerra è uno dei due ambiti della vita in cui, per definizione, tutto è permesso.
Guardando la serie “Sanpa” ho ritrovato una declinazione interessante delle stesse questioni.
C’è un interrogativo che attraversa tutti gli episodi: è davvero lecito tutto per “salvare” qualcuno? Ma aggiungerei: è proprio vero che la salvaguardia della salute del terapeuta è solo un problema suo? O nell’ascesa e caduta di Vincenzo Muccioli quel mostro dell’onnipotenza si ritrova in una forma assai più maligna e mal gestita rispetto alle storie che ho conosciuto io?
A mio modo di vedere la questione importante nell’evoluzione della professione clinica attraverso gli anni, e la parte davvero impegnativa dell’evoluzione di un terapeuta, non sta semplicemente nello sviluppo delle tecniche o delle conoscenze. Certo, acquisire nuove conoscenze è importante; imparare a fare bene le domande e a formulare ipotesi è fondamentale; ma, credete, la tecnica (banalmente: quello che si fa in terapia) non è la parte più difficile dell’impresa. La parte più difficile è sviluppare un pensiero sul “perché” si fa quello che si fa e sulle implicazioni etiche. L’evoluzione è soprattutto nella riflessione epistemologica. La tecnica è importante perché è una conseguenza di quella: è il modo in cui la consapevolezza delle premesse si trasforma in un modo di stare e di fare delle cose nella relazione clinica. Sappiamo che fare delle buone domande triadiche ci aiuta a far emergere informazioni di un certo tipo e di una certa utilità: ma questo avviene perché è innanzitutto un modo di condurre la seduta attraverso il quale ci assumiamo la responsabilità di dire l’importanza e la legittimità del punto di vista di ciascuno; e attraverso il quale ci rendiamo garanti del fatto che come ciascuno dei partecipanti sarà narrato dagli altri, sarà anche, al contempo, voce narrante.
La parte complessa, quella che richiede tempo nella crescita di un terapeuta, ha dunque a che fare col come si sta in quella relazione. In questo senso, inevitabilmente, a un certo punto ha a che fare col modo in cui il terapeuta gestisce quel mostro; con la possibilità che ha, prima di tutto, di riconoscerlo.
La mia idea è che a San Patrignano un’esperienza già nata su basi educative discutibili abbia procurato al suo ideatore una notorietà enorme e ingestibile. Non è vero che il fondatore è stato un pioniere della cura delle dipendenze e che prima di lui non esistesse nulla. Ma nonostante la presenza di alcune realtà illuminate, lo Stato di per sé era piuttosto impreparato a vigilare sulla qualità e sulle modalità degli interventi. Questo contribuì a rendere Muccioli un messia. La politica sfruttò per interessi propri la fama di quell’uomo; i media soffiarono sul fuoco della sfiducia della gente verso le istituzioni e dell’adesione emotiva all’uomo forte, al salvatore giusto che si batteva contro tutti.
Se accettiamo di stare nella metafora bellica, e dunque se è vero che la droga ci chiama alla guerra, in quella guerra San Patrignano era la fortezza da difendere, il suo fondatore era l’eroe che resisteva, chi lo criticava era il nemico o il traditore.
Tutto questo alimentò a dismisura il mostro dell’onnipotenza, e quel mostro, pessimo consigliere, spinse il capo ad affidare i suoi metodi (già di per sé discutibili) a una manica di adoratori inaffidabili e psicopatici.
Quell’uomo che si era inventato salvatore non aveva gli strumenti per contrastare quel mostro, gli lasciò briglia sciolta forse anche perché era per lui terribilmente seducente.
”È lecito tutto?”. Per esempio: puoi malmenare un ragazzo perché non vada a drogarsi? Puoi trattarlo come un irresponsabile? E d’altra parte: l’“irresponsabilità” è una specie di malattia da estirpare o non è in qualche misura una definizione che finiamo per confermare nel momento in cui la condividiamo fino alle conseguenze estreme?
E dunque cosa è lecito? Cosa no? Sono domande a cui la risposta può non essere la stessa per tutti. Però non bisogna smettere un attimo di porsele. Facciamo un mestiere in cui continuamente le persone ci affidano un potere e abbiamo l’obbligo di saperlo e di sapere come lo usiamo. Allora la storia di Sanpa è rilevante per chiunque faccia una professione d’aiuto. Come tutte le storie mostruose, quella storia amplifica a dismisura questioni che appartengono alla normalità del quotidiano e le rende ineludibili. E lavorare con le relazioni significa prendere continuamente posizione: “è lecito tutto? Non in generale, non solo in assoluto, ma per me”.