Dialoghi - Società

30 anni di Istituto Change
L’arte del cambiamento.
Gli hamburger, le cornici
e il rock and roll

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(Relazione tenuta a Torino, 25 maggio 2019, per il 30° anniversario della nascita dell’Istituto Change)

La prima delle mie slide proiettate

Soltanto dopo che ho proposto a Silvana Quadrino e a Mauro Doglio il titolo della mia relazione, ho scoperto che era anche il titolo di un libro famoso!
Allora ho aggiunto il sottotitolo che vedete. Ho controllato: non l’ha usato nessun altro.
Grazie a Change di avermi chiamato a parlare oggi, in una ricorrenza così importante. Ho penso che la cosa migliore per celebrare questo trentesimo compleanno fosse partire dal nome con cui fu battezzata la creatura trenta anni fa.
Così ho scelto di seguire il filo della parola “cambiamento”: e ora vi racconto cosa mi è venuto in mente seguendo la traccia di questa parola, che contiene l’origine e il senso di quello che tutti noi cerchiamo di fare ogni giorno.

Fu per più di una ragione se tanti anni fa, dopo qualche anno di riflessione successiva agli studi universitari e ad alcuni passaggi di vita che mi richiesero di prendermi del tempo per pensarci, decisi che avrei svolto la mia professione nella cornice della teoria sistemica.

La prima era che non volevo impegnarmi in qualche altro tipo di religione, e alcune delle parrocchie teoriche che mi si presentavano avevano tutta l’aria di richiedere una posizione di fede. Alcuni cultori mi sembravano dei sacerdoti custodi di qualche genere di verità da iniziati.
La seconda è che ero affascinato dai videoregistratori. Non erano così diffusi allora. Mi riferisco all’attrezzatura classica degli studi di terapia familiare.

Infine, avevo l’impressione che la sistemica avesse un pensiero originale sul cambiamento. Era spesso un pensiero decisamente controintuitivo, ma mi sembrava più complesso e convincente di altri. Ad esempio, ero abituato a pensare che per cambiare qualcosa fosse necessario esercitare una forza e che questa forza dovesse essere proporzionata all’entità del cambiamento atteso.
Il buon senso lo prescrive: se non riesci a muoverlo spingi di più; se non riesci a convincere, insisti; se non riesci a farti sentire parla più forte; se una soluzione non funziona, è perché hai provato solo una volta; se non funziona la seconda, devi provare con la terza. Se nemmeno quella vale, allora la quarta, la quinta, la sesta, fino a che non funzionerà. Come dire: “more of the same”, cioè ancora di più della stessa cosa.

Frequentavo da studente di psicologia lo studio di un terapeuta della famiglia, con un piccolo gruppo di professionisti curiosi di quel modo di lavorare. A ripensarci oggi, credo che avesse un approccio un po’ naïf e poco ortodosso, ma erano anni in cui si faceva esperimenti, spesso intrecciando le nuove idee con la propria pratica abituale, dopo aver letto i nuovi libri che venivano dai pionieri italiani e non.
Lui, appunto, aveva un videoregistratore. E aveva lo specchio unidirezionale, e quel gruppetto di professionisti che frequentavano il suo studio per provare quello strano tipo di cura psicologica che usciva dal confessionale e si trasformava in una conversazione allargata a un certo numero di conversanti e anche di testimoni.
Allora capitava, più di quanto accade oggi, che una volta che un terapeuta aveva dato appuntamento a una famiglia che lo aveva consultato (per un figlio che andava male a scuola o che combinava qualcosa di insopportabile in casa), si presentasse. Arrivava la madre (educare i figli, molto più di oggi, era roba da mamme), il piccolo mostro e i fratelli. Il papà aveva da lavorare.
Invece di trovare irritante quell’assenza, come succedeva a me, il terapeuta rideva. E magari metteva nel cerchio una sedia vuota e diceva alla famiglia che quello era il papà.
Ma la cosa che mi faceva uscire di senno era che passavamo un pomeriggio a scrivere una lettera da spedire all’assente o da consegnare ai congiunti affinché gliela recapitassero. Io mi aspettavo che scrivessimo tutte le buone ragioni per cui un padre dovrebbe anche lui occuparsi delle cure dei bambini, e che gli spiegassimo quanto sarebbe stato prezioso, giusto e importante che anche lui facesse lo sforzo di essere presente all’appuntamento successivo.
Invece nella lettera c’era scritto che restare a casa era una decisione saggia e sacrosanta, e che con la sua assenza il padre ci stava mostrando quanto fosse difficile per lui partecipare a quelle discussioni. Lo ringraziavamo per lo sforzo e aggiungevamo che, certamente, sarebbe stato importante averlo lì con noi ma che nondimeno avremmo accettato la sua decisione fino a quando lui, e soltanto lui, avesse deciso di venire, perché con il suo silenzio stava evidentemente cercando di salvare qualcosa che era importante per tutti. Non risparmiavamo parole di lode e apprezzamento.
E la volta dopo, beh: il papà si presentava alla seduta insieme alla famiglia! Ed era molto ben intenzionato a far sentire la sua voce. Parlava, raccontava, ci squadernava il suo punto di vista sul figlio, la moglie, la scuola, il mondo e tutto quanto.
Lo diceva prima Silvana Quadrino: serve un’idea di cosa attiva un cambiamento; non basta dire “fate questo”, “non fate quest’altro”.
Così io pensavo che se fare lo psicologo era quella roba lì, beh, era quello che avrei voluto fare tutta la vita. O almeno: che avrei voluto fare tutta la vita se non fossi riuscito a realizzare qualcuno dei miei sogni artistici. Tutto sommato mi pareva la cosa più creativa che si potesse fare senza una chitarra in mano.

Un attimo: probabilmente state pensando che era un modo per certi aspetti deplorevole di aiutare le persone. Che era manipolatorio e strategico, e che certamente esistono modi migliori di rendersi utili. E infatti col tempo quelli che fanno il mio mestiere hanno deciso di avere magari qualche successo in meno ma di giocare più pulito: a carte scoperte e senza trucchi.
Molti di noi hanno abbandonato l’ebbrezza di camminare sul filo del paradosso. Qualcun altro quell’ebbrezza l’ha conservata seguendo quello che un nostro maestro ci raccomandava pochi anni prima di morire: fate queste cose paradossali solo se ci credete veramente.
Se è necessario dire a un padre che non c’è che in realtà in quel modo sta salvando la famiglia, bisogna che ne siamo convinti. Altrimenti si fa altro, perché dire cose che non si pensano mina un rapporto di fiducia, e soprattutto non è corretto.
Sembra un richiamo a crescere e ad abbandonare i giochi dell’infanzia. In realtà è un invito a credere sempre di più in quei giochi. Se quando dico a qualcuno che con la sua assenza manifesta il suo amore, o che il suo sintomo è una storia eroica, devo provare io per primo a crederci, allora non sto più facendo un intervento strategico su un’altra persona: sto agendo per cambiare il mio punto di vista. Per cambiare me.

Era un invito totalmente coerente con l’insegnamento batesoniano: consisteva nell’abbandonare gli eccessi manipolativi della finalità cosciente, nel lasciarsi alle spalle l’idea antiecologica per la quale è possibile — o buono, o comunque utile — agire per modificare intenzionalmente l’altro, e nell’entrare con tutte le scarpe nel processo. Nel sentirci completamente parte di quello, anziché agenti esterni col potere di cambiarlo nel modo che più ci piace. E confidare, con Heinz von Foerster, che il cambiamento è una caratteristica dei sistemi viventi. Vivere è cambiare. Se si lascia un sistema libero di essere sé stesso, la cosa più naturale che quel sistema può fare è cambiare.
Dicevo che mi attirava il pensiero sistemico perché mi pareva che avesse una teoria del cambiamento. Avere una teoria del cambiamento significa per esempio darsi una ragione del fatto che certi cambiamenti sembrano avvenire per gradi, con un lavoro lento e fiducioso, ed altri invece per un “clic”, come un salto di gradino anziché una salita faticosa.
Tanti anni fa lavoravo come psicologo consulente in una comunità per tossicodipendenti. Era una comunità un po’ particolare: ospitava coppie di persone che si erano conosciute in mezzo alla droga, si erano messe insieme e avevano messo su famiglia. Qualche volta in comunità con loro c’erano i bambini, che avevano educatori che pensavano a loro, potevano andare a scuola e passare del tempo di buona qualità con mamma e papà, avendo finalmente la consolazione di vederli dare una riorganizzata alla propria vita e occuparsi della loro.

Un giorno mi trovo in équipe con gli operatori che mi parlano di Salvatore, marito di Savina e padre di due bambini che passano tutto il tempo con la madre: Salvatore non accetta di assumersi responsabilità, è un adolescente mai cresciuto e non vuole saperne di sentirsi un adulto e un padre di famiglia. Savina sempre più cerca conforto nei propri genitori e pensa che il giorno in cui usciranno dalla comunità loro saranno il punto di riferimento principale per lei e i suoi bambini. Salvatore protesta tutte le volte che la sua compagna prospetta questo futuro ma (tutti sono d’accordo su questo) non fa nulla per farle cambiare idea.
Lo staff degli educatori è sconfortato e condivide un senso di sconfitta unanime, anche perché la coppia è in comunità da tempo ed è giusto che presto esca per prendere una casa e fare la propria vita. Ma in che condizioni? E su che basi, e con quali probabilità di farcela? Tutti gli operatori vedono nero nel futuro di Salvatore e Savina. Questo mi colpisce, e dico a tutti che non mi era mai capitato di vederli così d’accordo su un argomento qualunque. Qualcuno sorride e mi conferma che sì, tu ci conosci, non capita mai.
Rispondo meravigliato che Salvatore sembra talmente competente nel mostrarsi incompetente che sono tutti d’accordo sul fatto che sia irrimediabilmente inadatto ad assumersi delle responsabilità. Ma perché, aggiungo, investire tanta energia in un’abilità del genere? A che serve? A chi serve? Ci pensiamo su, gli operatori ripercorrono la storia di Salvatore e quella di Savina, fanno ipotesi, cercano di venirne a capo.

Alla fine prendiamo una decisione. Gli operatori avranno un colloquio con la coppia. Diranno a Salvatore che hanno pensato che la sua ostentata incompetenza è un dono che lui fa a Savina. Lui la conosce meglio di chiunque altro, e sa che lei si porta dietro tante ferite nel rapporto coi genitori. In passato si è sentita abbandonata e rifiutata da loro e oggi li sta ritrovando. Li ama tanto e ha il desiderio che finalmente, dopo una vita in cui non si è sentita vista, facciano qualcosa per lei. Così probabilmente Salvatore, spiegheranno loro gli educatori, si è messo da parte e lascia che lei possa appoggiarsi a loro finché sente che ha bisogno di prendersi il suo risarcimento, anche attraverso le attenzioni e le risorse che dedicano ai nipotini. Dopo, probabilmente, Salvatore sarà pronto a riprendersi il suo posto, ma è abbastanza chiaro che ora sta lasciando tutto il campo a loro e che Savina sta usando bene questa opportunità.
Mi riferiranno la settimana dopo che la coppia ha ascoltato il messaggio senza commentare. Ma alla domenica è successo un fatto che li fa sentire molto eccitati. Era il giorno mensile in cui la comunità riceve i genitori degli utenti.
La madre e il padre di Savina hanno preso da parte la donna e le hanno ribadito che quando usciranno di lì lei potrà contare sulla loro presenza e il loro supporto per sé e per i figli. A quel punto è intervenuto Salvatore: “Savina è mia moglie; grazie di tutto, siete stati davvero generosi e ci avete dato un grande aiuto; ve ne sarò sempre riconoscente, ma ora per lei e per i bambini ci sono io”.
I due ospiti erano sorpresi. Il padre ha guardato Savina e le ha detto: “ma lo senti, questo cretino? Cosa sta dicendo?”.
Savina ha guardato Salvatore, poi si è rivolta al padre: “No papà, ha ragione. Grazie di tutto, ma ora siamo una famiglia”.
Dopo quel giorno la presenza di Salvatore in famiglia e in comunità prese un’altra piega, Savina cominciò a coinvolgerlo e di lì a poco la famiglia prese la propria strada.

Sarà per quella vecchia storia che le mele non cadono lontano dall’albero, ma due anni dopo avrei ritrovato in comunità un giovane nipote di Salvatore. Si presentò e mi disse che lo zio lo aveva avvertito che nei primi giorni di comunità avrebbe incontrato me per i colloqui di valutazione. Fu una bellissima occasione per un follow up non cercato: mi disse che Salvatore lavorava, che la famiglia stava bene, i bambini crescevano e tutto procedeva per il meglio.
Bene, tanti anni fa un sistemico avrebbe descritto questa storia come il risultato di un intervento strategico. Ma io oggi posso dire che, al contrario, quello che è successo è stato possibile anche perché un gruppo di persone ha lavorato su di sé e ha modificato il proprio punto di vista. Non soltanto ha modificato il proprio punto di vista su Salvatore e ha deciso di vederlo come un uomo che faceva cose che avevano un senso; ha accettato di mettere momentaneamente fra parentesi una propria premessa costitutiva, persino, cioè quella per cui la “competenza” è il prodotto di un lungo percorso di crescita sotto la guida di altre persone, più esperte e competenti. E aveva accettato di considerare la “competenza” come una storia che delle persone raccontano su altre persone. Un gioco linguistico.
È quello che la cibernetica del secondo ordine ci indica come il solo cambiamento possibile: il cambiamento del cambiamento. Cambiare il modo di cambiare.

Se vuoi cambiare il mondo cambia te stesso, pare dicesse Socrate. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo, diceva Gandhi. Non pensavano a Salvatore e a quel gruppo di educatori coraggiosi, ma quella storia è un bell’esempio di cambiamento che parte dall’osservatore. Non sei separato da un sistema tanto da poter agire su di esso; puoi stare in relazione, giocare, interagire, provare a incuriosirti, cambiare posizione e stare a vedere cosa succede. Solo lui deciderà cosa farsene della tua presenza.
L’arte del cambiamento, dunque, dalla pratica di trasformare i sistemi diventa una pratica dell’incertezza e dell’agire su sé stessi.

Dicevo poco fa di un’altra questione rilevante che emerge dalla storia di Salvatore, Savina e i loro operatori.
La sistemica si è occupata con un certo puntiglio dei modi in cui a volte un cambiamento si presenta così, praticamente improvviso. Come un salto di stato anziché un lungo percorso graduale.
Una comunità di recupero è per definizione il luogo del cambiamento continuo e graduale: ma quella volta fummo testimoni di un cambiamento discontinuo, un cambiamento di stato generato da un cambiamento di contesto. Cambiano le regole, cambia la cornice, e insieme cambia il comportamento delle persone e il modo in cui si compongono le une con le altre.

Oggi possiamo dire che la dimensione del cambiamento improvviso non è alternativa al quella del cambiamento incrementale ed evolutivo (questo era anche il punto di vista di Varela), ma fra le cose che mi attrassero verso lo studio delle discipline sistemiche c’era la scoperta che un cambiamento di cornice poteva spalancare ampie possibilità di nuove realtà da contemplare.
Credo c’entrasse col fatto che da bambino ero cresciuto in mezzo ai dischi di musica classica, e mi portavano ad ascoltare concerti in cui se applaudivi alla fine di un movimento il direttore ti fulminava con lo sguardo e i vicini di sedia ti maledicevano. Potevi esprimere la tua gratitudine solo più in là, alla fine. Cominciavo anche a conoscere quella cultura che diceva “vogliamo tutto e subito”, una realtà fatta di canzoni che in tre minuti ti dischiudevano un mondo. Qualcuno dice: ti cambiavano la vita, e chi ci è passato sa che non è una esagerazione.
Il tempo del cambiamento, dunque. Ma la questione è: sarebbe arrivato quel cambiamento a cui assistemmo in quella comunità, se non dentro quel percorso e quel contesto? Il tempo breve e sorprendente di quello scatto di orgoglio di Salvatore in che modo si coordinava col tempo lento e continuo della comunità? A quel momento glorioso come un assolo di chitarra, avremmo assistito se non nella cornice di quel cammino lungo come la sinfonia n. 3 in Re minore di Mahler?

Per dirla tutta, anche quella musica che era apparsa all’improvviso nelle vite della generazione che mi aveva preceduto e che aveva così influenzato anche la mia, era stata vissuta come una specie di rivoluzione, un salto vertiginoso di mondi e di stili di vita. Eppure di quanti passi meno visibili verso il cambiamento, sia dal punto di vista musicale che da quello sociale e culturale, c’era stato bisogno per arrivare lì?
Quanta storia quelle canzoni di tre minuti contenevano in sé? Poteva nascere qualcosa del genere senza tutto quello che le ha precedute?

Allora qualche volta facciamo esperienza di cambiamenti lunghi e graduali. Altre volte di cambiamenti improvvisi innescati da un salto di contesto, da un cambio di paradigma. Altre volte ancora di capovolgimenti radicali che però fioriscono dopo una serie meno evidente di passaggi e di cambiamenti incrementali.
Una pentola d’acqua sul fuoco ci mostrerà in un momento “x” un cambiamento di stato sulla superficie del liquido: un attimo prima non bolliva; un attimo dopo sì. Ma quello che non vediamo è che prima di andare da novantanove a cento gradi c’è stato un momento in cui l’acqua è passata da novantotto a novantanove; e prima ancora, da novantasette a novantotto; e prima da novantasei a novantasette e così via a ritroso. E anche una volta superati i cento gradi, non lascerà subito il posto al vapore: per un certo periodo esisterà nel doppio stato di acqua e vapore.

Pensare al cambiamento in questi termini è affascinante. Il cambiamento graduale è la prova del nostro essere sistemi sostanzialmente autonomi, autoreferenziali, non soggetti alla volontà di manipolazione di un altro, e in definitiva liberi. Il cambiamento discontinuo, invece, è quello che rende conto della connessione col resto del mondo. Del fatto che non siamo soli, vorrei dire.
Ecco, credo che alla fine il tema del cambiamento mi suoni così attraente perché pensare al cambiamento vuol dire muoversi fra questi due poli. L’essere con gli altri e l’essere liberi. Che poi è come dire: il vincolo e la possibilità.

La ragione per cui oggi un pensiero sul cambiamento mi sembra necessario sta nel fatto che di quel genere di cambiamento che viene da un salto di paradigma abbiamo un gran bisogno. Perché è un cambiamento forte ma lieve. Oggi che assistiamo a uno scontro incessante di forze uguali e contrarie, oggi in cui il dibattito in tutti i campi sembra un defatigante e inutile “more of the same”, il tipo di cambiamento di cui avremmo bisogno è radicale e gentile. Un ribaltamento, ma pacifico. Una rottura di una cornice, un salto di paradigma, una ristrutturazione cognitiva come quella che permise agli educatori della comunità di connotare positivamente l’immobilità di Salvatore.

C’è un signore negli Stati Uniti che è da un po’ di tempo una delle mie fonti di ispirazione. Si chiama George Lakoff, ed è uno psicologo cognitivo che dopo aver scritto delle cose di importanza capitale sulla metafora nel linguaggio, si dedica a studiare metafore e cornici nella comunicazione politica. Per esempio, ha spiegato ai politici americani perché una certa parte non riusciva a vincere: non ci riusciva perché continuava a rispondere all’avversario dentro la cornice da lui scelta. Uno sterile “more of the same”, un continuo “siamo più bravi noi” che non aveva possibilità di avere la meglio: perché vince non chi spinge di più, ma chi definisce l’agenda: cioè chi sceglie la cornice.
Per essere cambiamento devi cambiare cornice. Oppure entri dentro la cornice del problema per romperla, non per farla tua.
Tutta la storia di Silvana Quadrino e Giorgio Bert è entrare nelle cornici preesistenti — istituzionali, contestuali, scientifiche — e cambiarle da dentro.
Ecco, il punto di vista di Lakoff è molto utile per capire come mai qui da noi certi cambiamenti che aspettiamo sembrano impossibili. Sembra che cambiare cornice sia più difficile che stare in quella che c’è.
Penso alla comunicazione politica.
Se il tuo avversario dice “sicurezza, sicurezza, sicurezza!”, tu non puoi rispondere “sicurezza, sicurezza, sicurezza!”. Magari puoi spiegare perché saremmo tutti più sicuri in città più ospitali, in periferie più vivibili, in luoghi dove si favorisce l’aggregazione invece che la frammentazione.
Se il tuo avversario dice “io ho bloccato mille migranti”, tu non rispondi “e io allora ne ho bloccati mille e uno!”.

Ma quello che non capisce la politica lo capisce la comunicazione pubblicitaria. Guardate come il cambiamento sia parente dell’umorismo. Cambiamento, umorismo, ironia, sono tutti figli della capacità di pensare per cornici.
Qualche tempo fa la filiale francese di McDonald’s aveva finanziato uno spot pubblicitario dentro una campagna “comparativa”, cioè praticamente diretta a screditare la concorrenza.
C’è una squadra di operai lungo una strada nel verde che monta un enorme cartellone stradale con la pubblicità del più vicino Burger King (la concorrenza). La situazione è surreale, il cartello è alto decine di metri e pieno di incomprensibili indicazioni stradali, perché il locale è a 258 chilometri. Accanto a quello, un cartello di McDonald’s (più piccolo e ad altezza di finestrino dell’auto) dice che a soli cinque chilometri c’è il prossimo McDrive.

Lo spot si conclude con il claim: “con più di mille locali McDonald’s è più vicino a te.”
Pochi giorni dopo Burger King uscì col suo spot in risposta. L’inizio dello spot è… lo spot di McDonald’s! Ma si vede il seguito della storia: passa davanti ai due cartelloni un’utilitaria con un uomo e una donna. L’auto arriva al vicino McDrive. Il guidatore apre il finestrino e alla gentile cameriera che domanda “cosa desiderate?”, risponde “un caffè”. “Piccolo o grande?”, domanda lei. “Grande”, dice lui con uno sguardo complice alla compagna di viaggio. “Abbiamo molta strada da fare”. E ripartono verso il Burger King, mentre in primo piano appare lo slogan “Grazie McDonald’s per essere ovunque”.
Lo spot termina coi due, seduti al Burger King, 253 chilometri più avanti, a gustarsi l’hamburger mentre dicono cose tipo “mmh, non era poi così lontano”.

Ora, spero si veda la grazia e la genialità di questo genere di comunicazione. Il “buono” contro il “cattivo” non si lamenta, non rivendica, non si mette in competizione: sceglie di giocare lo stesso gioco dell’avversario ma solo per sabotarlo da dentro. Non dice “non è vero, siamo vicini anche noi”; non dice nemmeno “sì, è vero, siamo lontani, ma vuoi mettere quanto è buono il nostro panino?”. Fa una cosa molto più intelligente: usa il messaggio di McDonald’s ma in realtà lo sovverte. Perché sposta il focus su una cosa che per le persone è importante, ma che il colosso non aveva considerato: e cioè che un hamburger deve essere buono. Il rivale scende nello stesso campo ma si insinua in uno spazio che, per eccessiva sicurezza, l’arrogante major ha lasciato non presidiato: mostra due clienti che scelgono di affrontare tutta quella strada per mangiare un hamburger più buono. Non dice che lo è: lo mostra. E questo fa la differenza. Tutto con una leggerezza che conquista il pubblico perché fa della propria debolezza la propria forza.

Stare “dentro”, ma starci a modo proprio, è una posizione ironica. L’ironia sta “dentro”: magari non si sporca le mani, ma le scarpe sì.
Io, nelle parole di questi tempi, di ironico ci trovo poco. Sarcastico, derisorio, caustico, mordace, sì. Ironico no.
C’è un’altra cosa da dire su questi tempi.
La nostra conoscenza dei sistemi dinamici ci mostra come, in quanto esseri viventi, viviamo costantemente fra un cambiamento che tende alla stabilità — un cambiamento conservativo al servizio della conservazione dell’identità — e un cambiamento trasformativo, che ci porta a nuovi livelli di funzionamento anche a costo di una fase di destrutturazione. Naturalmente il primo tipo di cambiamento è quello prevalente, e talvolta diventa l’unico cambiamento possibile. Una prevalenza della conservazione può magari darci l’apparenza di un grande movimento, di un caos in cui la realtà appare sempre imprevedibile: eppure l’aria si fa pesante e a un altro livello sentiamo che siamo prigionieri di un’immobilità in cui il mondo gira sempre nello stesso verso e noi stiamo sempre più male.

“Cambiamento” è la parola che più ricorre nella comunicazione. Chiunque voglia essere convincente lo nomina. Ma prima che di cambiamento, c’è bisogno di un’idea di cambiamento. E allora oggi vorrei augurare buon compleanno a Change e alzare il calice per brindare a tutti quelli che lavorano con in testa un’idea complessa di cambiamento.

 


Un altro momento del convegno: la relazione di Caterina Schiavon