Disseminazioni - Psicologia & psicoterapia - Web

Da Ibridamenti, 2016
Lo psicoterapeuta online fra riservatezza e autosvelamento

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Mi fa molto piacere che Costanza Jesurum sul suo blog faccia il punto su una questione alla quale si dedica da anni e sulla quale ci voleva che qualcuno cominciasse a mettere insieme qualche pensiero.
La questione riguarda quelli che fanno il suo e il mio mestiere, ed è il modo in cui lo psicologo – lo psicoterapeuta in modo più determinante, e lo psicoanalista, qual è Costanza, in modo ancora più peculiare – si trova a regolare i confini fra vita professionale e vita privata ora che tutti, con internet e i social network, siamo un po’ più pubblici.
La questione pone certamente degli interrogativi nuovi a tutti i colleghi che hanno un profilo Facebook, ma è un banco di prova per chi, oltre a ricorrere ai mezzi di comunicazione per tenersi in contatto col prossimo, intenda non sacrificare una necessità espressiva che lo porta a coltivare la scrittura come – usando le parole di Costanza – “modalità di digestione dell’esperienza” e, aggiungo, di cura per le cose che lo nutrono personalmente e professionalmente. Ecco, il punto sta proprio nell’accostamento di questi avverbi, perché – e questo spiega la portata per niente banale del problema – al terapeuta da sempre è raccomandato di segnare con la matita grossa i confini fra il privato e il mondo nel quale si incontrano pazienti. L’anonimato dell’analista è un modo di proteggere la relazione clinica mantenendo la riservatezza sul clinico, in modo che le fantasie del paziente sulla sua vita restassero né confermate né smentite, continuando così ad essere oggetto di transfert e proiezioni.

È propria della psicoanalisi appunto, questa preoccupazione, anche se capita che problemi posti dagli psicoanalisti si rivelino pertinenti anche per altre categorie di terapeuti. Nella mia comunità scientifica, che è quella sistemica, ad esempio, non si è mai arrivati a teorizzare una forma di anonimato del terapeuta, ma condividiamo molte buone ragioni per regolare con prudenza il traffico delle informazioni fra un dominio e l’altro. Innanzitutto perché spesso lavoriamo con più di una persona per volta: con famiglie o con coppie. E curare quel che nella stanza di terapia si sa di noi è utile a proteggere quella forma di “neutralità” (chi ha pratica con questo linguaggio capirà perché uso le virgolette, gli altri lo capiranno fra un po’) e di equidistanza per la quale non condividiamo con uno dei presenti più di quanto condivideremmo con gli altri. Ma non è solo questo. Anche nella relazione uno a uno, sebbene fantasie e proiezioni nel nostro modo di lavorare non abbiano la stessa centralità che per lo psicoanalista, molti professionisti sanno che è sempre meglio che contenuti che possano sollecitare emozioni e sentimenti dei pazienti restino interni alla relazione terapeutica.
“Molti professionisti”, dicevo, non tutti: e infatti, nella sistemica come in altri ambiti teorici qualcuno teorizza l’uso dell’autosvelamento (self-disclosure in letteratura) come vero e proprio strumento della relazione clinica, e lo raccomanda come essenziale. Mi è capitato di confrontarmi con professionisti che affermavano che l’autosvelamento del terapeuta sia addirittura una necessità etica di “autenticità” nella relazione col paziente. Come si vede, il dibattito sulla questione è gravato di robuste dosi di dogmatismo: lo svelamento di sé è da evitare assolutamente o è da praticare con generosità, tanto da identificarsi con la vera sostanza di una relazione clinica vista non tanto come pratica sorretta da un sapere teorico e tecnico, quanto come relazione umana il più possibile sgombra da sovrastrutture.
Fra questi due “poli” dogmatici, ci sono autori e clinici che raccomandano lo svelamento occasionale di elementi di sé e della propria biografia come una strategia utile a favorire riflessione e a facilitare un avvicinamento emotivo fra terapeuta e paziente.
Non sono stato accuratissimo, ma mi interessa dare una misura dell’enormità della questione. Soprattutto, mi interessa mostrare come gli argomenti dogmatici o strategici finora utilizzati per affrontare la questione diventino poco utili: non si tratta di misurare il grado di apertura che si intende dare alla relazione; si tratta di gestire consapevolmente un certo grado di trasparenza che ormai – da quando i clinici abitano anche online e sui social network –  caratterizza le nostre vite anche di terapeuti, a meno di non voler compiere improbabili scelte ascetiche o praticare l’occultamento volontario.

Costanza Jesurum, negli anni, ha affrontato la questione dapprima celandosi dietro allo pseudonimo con cui ha gestito il suo vecchio blog, e poi decidendo di uscire allo scoperto con un nuovo blog che porta il suo nome, inagurato più o meno contemporaneamente al suo profilo Facebook.
Sebbene col nuovo corso abbia di molto ridimensionato i post autobiografici e personali, la costellazione delle sue identità virtuali indubbiamente svela di lei più di quanto un tempo fosse accettabile. A questo si aggiunge l’uso di un suo peculiare linguaggio che mescola, come dice lei stessa, “alto e basso, romanesco e forbito, gioco letterario e gioco intellettuale”, e che manco da lontano assomiglia al gergo nobile e quasi privato con cui si usa parlare di certe cose. Non vorrei usare l’espressione “sperimenta linguaggi”, perché spesso non si capisce cosa voglia dire, ma nel caso di Costanza avrebbe senso. Alternando un italiano, se non elegante almeno pregevole, a quel linguaggio divulga contenuti psicologici di un certo peso specifico e, ugualmente, racconta se stessa o dice la sua sull’attualità politica.

Vi invito a leggere il suo post, perché Costanza racconta bene i modi in cui, nel tempo, ha appreso ad abitare molteplici territori e a giocare con i loro confini. E quel che racconta è, di fatto, come lo stare online ha contribuito a costruire la sua identità professionale e il modo in cui è percepita come professionista. Questo mi pare un passaggio importante, che segna secondo me un salto di consapevolezza dove ancora molta parte della categoria si pone il problema del modo più “decoroso” di stare in rete per promuovere il proprio lavoro – o danneggiandolo il meno possibile. Ma niente di quello che accade dentro questo schermo accade unilateralmente, e anzi è piuttosto una negoziazione costante dell’identità. Quello che succede online non è che tu mostri a più gente possibile una cosa che esiste: ne crei una che non c’era ancora. Se non si capisce questo, anche il professionista della psiche e della relazione continua a pensare a internet come a una versione espansa delle Pagine Gialle (e infatti ho l’impressione che questo equivoco sia ancora piuttosto diffuso). Non so se Costanza sarebbe d’accordo con questa affermazione, ma io non penso che abbia “usato” internet per far conoscere il proprio peculiare modo di essere psicologa e terapeuta: penso che anzi quel modo lo abbia costruito nella relazione col mezzo che usa e con lo sguardo di chi la segue.

Parlando da qualche parte del libro che ha pubblicato l’anno scorso dicevo che la sua chiave per la divulgazione non è quella di semplificare la materia che racconta, ma è una specie di pensiero ad alta voce. Quando si pensa ad alta voce probabilmente si usa un linguaggio meno forbito di quello che si usa fra esperti: ma dopodiché, scegliere di condividere con qualcuno il proprio pensiero ad alta voce significa contare sul fatto che quel qualcuno sia abbastanza intelligente da comprenderlo, sebbene non sia del mestiere. È questo atto di fiducia, secondo me, quello che fa sì che le persone stiano al gioco e accettino di entrare in un mondo che non conoscono: non il mettere a loro disposizione una mappa banalizzata di quel mondo.

Ecco, questo scrivere “pensando ad alta voce” è anche un’abilità che abbiamo imparato qua, nei blog e nei social network. Mi ricordo di un collega che un pomeriggio lasciò sulla propria bacheca Facebook, a caldo, uno status irritato in cui diceva di essere stato lasciato ad aspettare da un paziente con cui aveva un appuntamento: non si era presentato alla seduta né aveva avvisato per tempo. Alla discussione pubblica su questo evento increscioso (il collega aveva preso un impegno col paziente e dunque aveva rinunciato ad altri, e ora si ritrovava con un buco nell’agenda: che si fa in questi casi? Si chiede di pagare ugualmente la seduta? Ma questa condizione era prevista nei patti? E che vuol dire dal punto di vista della relazione clinica quando il paziente ti lascia lì ad aspettarlo?) parteciparono dapprima colleghi di orientamenti vari, poi la conversazione si allargò. Un piccolo pubblico di non-psicologi (fra cui, suppongo, anche clienti di psicoterapeuti!) disse la propria accanto ai pareri esperti, e il prodotto credo fu molto arricchente per gli uni e gli altri. Certo, quella conversazione violava un tabù antico: i terapeuti (gli analisti, poi!) parlino delle loro cose in privato, e certamente mai come uno sfogo a caldo, con le balle che gli girano per un pomeriggio andato in vacca (fare le cose per sfogarsi, senza averci pensato almeno una mezz’oretta, si chiama “agito”, ed è ritenuto sommamente sconveniente). Ma che piaccia o no, il modo in cui funzionano oggi le nostre comunicazioni ci chiede di decidere cosa fare di quei tabù. Difenderli a tutti i costi o provare a capire cosa ci guadagniamo dal decostruirli? Probabilmente qualunque scelta è lecita: meno utile è lasciarsi “agire” da queste nuove possibilità senza avere un pensiero in merito.

 

Conservare un posto all’ombra, già da un po’ di tempo a questa parte, era davvero complicato, e forse nemmeno così desiderabile. Molti di noi si sono avvicinati a questa professione spinti magari non dal solo desiderio di essere utili al prossimo, ma perché la psicologia e la cura fanno parte di un universo che sempre più si interseca con altri universi. Ci sono miei colleghi che sono terapeuti e scrittori – e non è necessario spiegare come questi mondi si alimentino a vicenda. Scrivono romanzi in cui, probabilmente, aprono anche spiragli sulla propria biografia, e affrontano la critica, vengono recensiti e di loro si parla in contesti extraclinici. Altri magari sono terapeuti e musicisti: chi ne conosce qualcuno sa che davvero non è possibile capire quale dei due punti sia la partenza e quale l’approdo. Suonano in pubblico e affrontano anch’essi il rischio del giudizio.

Ecco, per dire l’entità della questione anche senza internet. A un certo punto, poi, arriva pure quello. E io, che ero cresciuto fra i libri di psicologia ma anche dentro quella straordinaria e libera esperienza di comunicazione che erano le radio private, colsi che lì c’era qualcosa che mi riguardava.

Già dal 1999 feci il primo sito del mio studio, componevo pagine con quel poco di html che avevo imparato scaricando le pagine degli altri e guardandoci dentro. Non era particolarmente vivace, anche perché allora bisognava presentare i testi all’Ordine professionale, che doveva valutarli ed eventualmente approvarli, proprio come una pubblicità qualsiasi. Non era ancora evidente a tutti che la rete era un’altra cosa, aveva altri tempi e non era un oggetto statico e definitivo come un cartellone pubblicitario.
Col tempo le regole cambiarono. Io imparai a usare WordPress e i blog. Qualche anno dopo avevo un bel sito “di lavoro” e a un certo punto superai la timidezza e mi presi un dominio col mio nome. Il sito conteneva tutte le informazioni utili sul mio lavoro e la mia storia. Dentro, ma distinto, c’era un blog dove pubblicavo articoli troppo brevi, o troppo incompleti, o troppo colloquiali, per aspirare a diventare contributi per riviste o capitoli di libri, ma che lì, in quella cornice impegnata ma informale, stavano bene. Avevo ripubblicato anche vecchi articoli di musica e tutto quello che faceva parte della mia vita, diciamo, intellettuale.
Nel 2009 ci fu un evento che cambiò per sempre il mio rapporto con la rete e mi portò a ragionare sul modo in cui le mie identità online interagivano fra di loro.

L’evento fu il terremoto dell’Aquila – che è la città nella quale sono nato – e fu abbastanza naturale cominciare a pubblicare su quel blog i resoconti dei miei continui viaggi nella zona colpita: in fondo, sebbene si trattasse di diari intimi raccontati in prima persona, l’oggetto erano le relazioni, la convivenza, il trauma.
Erano diari, ma presto assunsero un altro valore. L’informazione dei telegiornali e dei quotidiani dalle zone terremotate era una propaganda spietata e mendace, e il raccontare in prima persona di chi andava o di chi c’era assumeva giorno dopo giorno un valore politico. Raccontare significava anche demistificare bugie e prendere posizione sull’operato del governo di allora. Assunsi pienamente e attivamente quella prospettiva, ma questo mi poneva un problema, che mi faceva stare male ma di cui non mi accorsi subito, anche se qualcuno cercava di segnalarmelo: come fare ad evitare di avvalorare le mie prese di posizione con la cornice di autorevolezza professionale – data dal sito “di lavoro” – dentro la quale stavano?
Poi, in luglio, pubblicai su Ibridamenti (fu un’idea che era nata in una conversazione con Maddalena Mapelli) una storia “alternativa” del terremoto ricostruita attraverso gli status di Facebook (era il vecchio Ibridamenti: il pezzo in questione sta adesso sul mio blog). Era sconvolgente, raccontava una storia del tutto diversa da quella della televisione. Il racconto di testimoni “da dentro”, che cominciava tre mesi prima della notte fatale, rendeva risibile tutta la pubblicistica sul tema “si poteva prevedere?” che riempiva i giornali in quei mesi. Il post uscì un pomeriggio, e la mattina dopo mi chiamarono da Rainews per andare a parlarne quella sera stessa in diretta al TG. Fui presentato e intervistato come psicologo e raccontai di quel bell’esperimento e dell’importanza della rete in una vicenda come quella. All’uscita dagli studi RAI di Corso Sempione riaccesi il cellulare e ricevetti una valanga di messaggini che mi incoraggiavano ad andare avanti e a dire le cose come stavano.
Si stavano sovrapponendo più piani, e questo cominciava a confondermi.
Come psicologo, uno guarda il mondo e le relazioni altrui cercando di mantenere quella distanza necessaria a comprendere le ragioni degli uni e degli altri, e di descrivere e comprendere processi senza prendere posizione. Ma poi, lo psicologo ha anche delle conoscenze: è esperto di relazioni, ha delle idee su quello che fa bene e quello che fa male. Queste conoscenze gli permettono anche di distinguere vittime e carnefici e di prendere, se possibile, parte per le prima: ma è giusto che questa postura e quella che dicevo un attimo fa siano distinte, e che non siano equivolcabili. Richiedono davvero di porsi in posizioni molto diverse. La prima è più, diciamo così, “in alto”; la seconda più “dentro”.
Ma poi c’era un altro livello ancora. Il coinvolgimento che avevo con le vicende di cui avevo scritto era anche, davvero, profondamente personale e autobiografico. La città terremotata era la città in cui ero nato e avevo passato più di un quarto di secolo e che sentivo volgarmente maltrattata.

Così dopo un po’ decisi di dividere in due il mio blog: quello interno al sito avrebbe continuato a ospitare articoli che riguardavano il mio lavoro, mentre in un altro trasferii parte dei post e continuai a pubblicare contenuti, diciamo, meno professionalmente connotati. Anche ricominciando a scrivere di musica, che era la mia passione più antica, e di cose che mi riguardavano. E, certamente, continuando – fino a che ho avuto qualcosa da dire – a parlare dell’Aquila e della violenza mediatica a cui la vedevo sottoposta.
Ecco, con l’esperienza online abbiamo sperimentato con ancora maggiore evidenza come ciascuno di noi sia una comunità di “sé” complementari ma diversi, e per me la questione del disvelamento inevitabile di parti del privato del clinico si traduce soprattutto nella necessità di mantenere la chiarezza delle cornici. Chiarire cornici significa anche aver presente – e fare in modo che sia chiaro agli altri – chi sta parlando in quel momento, e da quale collocazione.

Un fatto inevitabile è che la tua biografia ti insegue dovunque tu vada, e non resta ad aspettarti fuori dalla stanza di terapia. La mia data e il luogo di nascita stanno nascosti anche nel mio codice fiscale, e credo siano pubblicati in chiaro anche nel sito dell’Ordine professionale. Che io sono nato a L’Aquila, poi, è un’informazione che sta nei miei curriculum e dunque nel mio sito. Metteteci anche il fatto altrettanto ineludibile che io ho un accento differente da quello delle città in cui lavoro, e sarebbe assurdo mantenere il mistero con tutti quelli che lo notano e mi domandano gentilmente da dove venga.
Così, nell’anno del terremoto è capitato più di una volta che le persone che venivano in studio mi chiedessero notizie della mia città. Un giorno, appena arrivata in seduta, una coppia che attraversava un momento davvero complicato mi chiese con sincera partecipazione della salute dell’Aquila. È chiaro che il terapeuta non sta lì per dividere coi clienti il peso delle cose che lo angustiano; e però nemmeno sarebbe stato utile chiudere la questione ricordando che avevamo ben altre cose di cui parlare. Sentivo quell’interesse nei miei confronti come una specie di ringraziamento per quello che stavamo facendo insieme da diversi mesi. Comunicai loro questo pensiero, risposi con molta gratitudine e restammo per un po’ sull’argomento del loro interesse nei confronti della tragedia e del mio coinvolgimento in essa. E il terremoto diventò piano piano, nella conversazione, una metafora di ben altro. Mura fragili, senso di precarietà, desiderio di rientrare nella propria casa, diventarono altrettante immagini attraverso le quali guardare a quello che stava accadendo loro. E l’intensità con cui quel giorno parlammo della loro crisi non l’avremmo ritrovata nelle occasioni successive. Fu molto utile. Ecco, per me la chiarezza delle cornici significa per esempio che ci sono contenuti che possono tracimare da un contesto in un altro, ma il senso dello stare in quella stanza in quel tempo è usare per uno scopo ben chiaro – quello del benessere dei pazienti – qualunque materiale o evento ci si presenti.

Io penso che oggi un modo responsabile per il clinico di vigilare su quei confini stia nel mantenere aperta la riflessione al riguardo e nello sviluppare una consapevolezza degli strumenti tecnologici che usa.
Per alcuni colleghi un modo di essere consapevoli è, ad esempio, quello di aggiungere “psicologo”, “psicoterapeuta”, o “psicoanalista” al nome del loro profilo su Facebook. Non della “pagina” professionale: del profilo. Ricordo che tempo fa un collega psicoanalista decise di togliere la qualifica professionale dal nome del suo profilo Facebook. Molti suoi contatti discussero quella scelta pubblicamente, qualcuno la riteneva anche sbagliata. A un occhio esterno poteva sembrare un problema di poco conto, ma in quella scelta passava una presa di posizione che teneva conto di un secolo di dibattito sulla questione.
Il social network offre i modi per occuparci di fare chiarezza fra cornici. Penso che la responsabilità del clinico stia anche nel conoscerli e nello spendere un po’ di tempo per utilizzarli. Su Facebook possiamo dividere i nostri contatti in liste e poi configurare regole di riservatezza generali e particolari per ciascun post. Possiamo decidere con chi condividere un articolo scientifico, una presa di posizione politica o le foto delle vacanze. Possiamo dare tutto a tutti, o possiamo scegliere diversamente: l’importante è che la scelta sia il frutto di una decisione nostra le cui premesse ci siano chiare, e non casuali o imposte dallo strumento, o dal fatto che è più facile rendere tutto pubblico (o non pubblicare niente). Se riteniamo che non dovremmo mostrare molto della nostra vita extraprofessionale ai nostri pazienti, è possibile persino decidere di mostrare a una parte dei contatti i soli contenuti di tipo scientifico. Il prezzo di questa attenzione è di qualche secondo ogni volta che si pubblica qualcosa. Alcuni di noi affiancano al lavoro clinico la scrittura e la produzione di libri e articoli; talvolta le persone ci cercano sul social network come cercano qualunque altro autore. Perché no? Il fatto che il social network si presti bene alla comunicazione “da molti a molti” non vuol dire che quello sia l’unico modo possibile di utilizzarlo. Entro quei limiti ampissimi possiamo esercitare la nostra responsabilità per decidere di volta in volta il grado di pubblicità e la direzione del messaggio. Insomma: se non lo facciamo non è perché non si può.
Ogni volta che uno compie scelte di quel genere, quello che offre di sé è un “sé” differente. Siamo d’accordo che senza la dicitura “psicoanalista”, quel collega non era esattamente la stessa persona di prima? Non perché non sia più uno psicoanalista, ma per la posizione che il fatto di esserlo assume nel suo modo di definirsi rispetto a noi. Ecco, conoscere questa comunità di “sé” che ogni professionista è, e la pluralità di cornici che essa è in grado di generare, mi pare una delle nuove frontiere etiche del lavoro del terapeuta, al di là delle soluzioni dogmatiche o basate su qualche criterio di “efficacia” che ci siamo dati fino ad oggi. Soprattutto, per superare qualunque rigidità, è necessario sapere che i confini fra questi “sé” non sono (più) netti, ma anzi piuttosto sfumati e fuzzy. E pertanto non ci sono porte da chiudere a chiave o muri che nascondano alla vista. Questo forse ha causato – e causerà in futuro – anche errori da parte nostra, ma le cose ci richiedono di farci domande che prima non avevano ragione di esistere. Affidarci a soluzioni facili o standard è un po’ più rischioso che dare una risposta sbagliata.