Il terzo commento che arriva al mio post “Integrazioni, neotecnicismi post-narrativi, amnesie ed eclettismi vecchi e nuovi” è di Marco Bianciardi. che entra nell’argomento facendo ami riferimenti a quanto ha argomentato nella sua pubblicazioni più preziose.
Un ringraziamento a Marco Bianciardi, Filosofo e Psicologo, Psicoterapeuta ex Didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Ha lavorato a lungo nei servizi di salute mentale di Torino.
(Qui trovate il post originario e le risposte, pubblicate a mano a mano che arrivano).
Un grazie sincero a Massimo per le sue riflessioni, che ho trovato di grande ‘spessore’ umano oltre che professionale.
Mi soffermerei sugli aspetti più propriamente teorico epistemologici, pur consapevole di quanto essi si intreccino con gli aspetti relativi alla pratica clinica e alla responsabilità professionale. Vorrei, in particolare, arricchire le riflessioni di Massimo ricordando che il più recente contributo del CMTF alla clinica sistemica è il testo a cura di Barbetta e Telfener il cui titolo è “Complessità e Psicoterapia. L’eredità di Boscolo e Cecchin”.
La consapevolezza della ‘complessità’ non si propone come una teoria tra le altre, bensì come una ‘sfida’ (Bocchi, Ceruti, 1985): una sfida rivolta a qualsivoglia teoria o paradigma o sistema di conoscenze, per quanto possano apparire utili a spiegare le cose in modo soddisfacente ed esaustivo. In parole povere: qualunque sia la posizione teorico metodologica che assumiamo, dobbiamo riconoscere che le ‘cose’ sono più complesse, sempre e comunque – e non c’è trucco, o artificio, o via d’uscita che possa eludere tale complessità. In questo senso riconoscere la complessità significa assumere un atteggiamento di grande umiltà, di riconoscimento di una irriducibile dimensione di mistero, di apertura e di autentica riconoscenza nei confronti di teorie, approcci e metodologie differenti.
Queste considerazioni valgono anche a proposito del livello di osservazione cui scegliamo di porci. La psicoterapia è nata privilegiando un livello di osservazione e di intervento individuale (che il genio di Freud ha però ben presto ampliato includendovi la relazione terapeutica grazie al concetto di transfert), ma sappiamo possibili sia livelli di osservazione sovraindividuali (terapia di gruppo, terapia di coppia e di famiglia, nonché approcci ancor più ampi quali la clinica della concertazione), sia, per così dire, ‘intraindividuali’ (l’intervento psicofarmacologico, ma anche tecniche rivolte ad aspetti specifici del comportamento o del vissuto individuale). Ciascun livello osservativo può rivelarsi utile, ma ‘complessità’ significa ed implica che, qualunque sia il livello cui ci poniamo, dobbiamo essere consapevoli che di una scelta si tratta ed assumercene la responsabilità etica, considerato che, inevitabilmente, assumendo l’un livello di osservazione e di intervento se ne escludono altri possibili e potenzialmente utili.
Posta questa premessa mi soffermerei sulla affermazione “mente = cervello”, che Massimo riporta con comprensibile allarme, e sulla più ampia questione che essa pone. Ora, se questa affermazione venisse intesa in modo assoluto, come ‘vera’ in sè, senza relativizzarla ad uno specifico, parziale, livello di osservazione, si qualificherebbe come una affermazione di tale ingenuità che dovremmo considerarla semplicemente stupida (anche uno scolaretto sa che, per dirla à la Bateson, l’attività cerebrale è strettamente e reciprocamente interrelata per lo meno all’attività sensoriale). Se invece viene intesa come l’enunciare e il sottolineare la stupefacente, meravigliosa, ma pur sempre relativa, autonomia organizzazionale esperienziale e computazionale di quel miracolo che è il cervello di ciascuno di noi (ma anche il cervello di un insetto, e il nostro apparato digerente, e ogni singola cellula…) allora è un’affermazione utilissima nel sottolineare un aspetto caratterizzante l’avvincente (e pur sempre misteriosa) storia dell’evoluzione.
Se pur in estrema sintesi: d’un lato l’attività ‘mentale’ deve essere riconosciuta come ecologica, in quanto emerge da miriadi di connessioni e di circuiti che si rincorrono, si intrecciano, si sovrappongono senza certo badare ai confini posti dalle membrane cellulari, dalla scatola cranica di ciascuno di noi, dalle epidermidi dei singoli organismi, dalle cortecce degli alberi, ecc. D’altro canto i singoli elementi del vivente, dagli organismi unicellulari alle speci, agli ecosistemi, sono sempre caratterizzati da un certo grado di autonomia, ovvero di ‘chiusura’ – la quale permette di mantenere in equilibrio alcuni parametri vitali, appunto, grazie a processi informazionali che si chiudono ad anello, ovvero che ri-tornano circolarmente al punto di partenza in quanto prevedono informazioni di ritorno. E la storia dell’evoluzione è una storia imprevedibile, che nessuno ha già scritto, e crea il tempo, proprio perché emerge dall’intreccio di miriadi di irriducibili autonomie. Ebbene: se l’equiparazione mente=cervello vuole sottolineare il punto di vista interno a ciascun elemento del vivente, pur senza negare che tale autonomia si ritrova, ricorsivamente, a ciascun livello di organizzazione del vivente medesimo, essa ci aiuta ad evitare ogni tentazione di semplificazione indebita, di determinismo mal posto e di illusione di prevedibilità, ogniqualvolta entriamo in relazione con una persona o con un gruppo con storia nella loro unicità, che dovremmo sempre saper rispettare. Se, al contrario, intendesse essere una affermazione assoluta, cieca all’intreccio di organizzazione ricorsiva del vivente, essa – come anticipato – si rivelerebbe così stupida che non riterrei nemmeno utile soffermarvisi.