“La terapia familiare ha senza dubbio cambiato
notevolmente le pratiche di salute mentale,
ma in qualche modo ha perso per strada
gran parte dell’antica eccitazione (…)
Che ne è stato di quell’idea straordinariamente nuova,
di quell’audace salto concettuale?”
(Harlene Anderson e Harold A. Goolishian, 1988)
Ho atteso per assicurarmi che non fossero in arrivo altri commenti dopo il mio articolo del 3 marzo e gli interventi successivi di Gianluca Resicato, Massimo Schinco e Marco Bianciardi. Ci ho pensato su ancora un po’ e ora aggiungo qualche pensiero.
A rendere la questione piuttosto complicata è il fatto che la terapia familiare è una pratica continuamente in cambiamento, la teoria sistemica applicata alla psicoterapia è da sempre costantemente in cerca di un modo per superarsi. Dalla sua alba questa pratica si è presentata come inquieta e instabile. Diversamente da quanto accade per altri approcci terapeutici, un sistemico che passasse qualche anno su un’isola deserta, al ritorno difficilmente troverebbe tutto come prima.
O almeno è stato così per una fetta importante della sua storia. Questo si deve, credo, a due ragioni soprattutto.
La prima è che la cura dei sistemi umani nasce in quell’arcipelago di pensieri che fu la cibernetica, nella definizione che ne emerse dalle Macy Conferences degli anni ’40 (nella foto in alto): questo fece sì che ben presto mostrasse un forte bisogno di trovare un proprio contorno e che le pratiche emerse dagli studi sulla comunicazione condotti a Palo Alto apparissero come un modo affascinante ma anche insufficiente e contraddittorio di fondare una nuova idea di terapia. Sembrò necessario esplorare nuove possibilità — e ce n’erano, dato che il dissodamento di quel terreno era appena all’inizio.
La seconda ragione è che quell’inquietudine sta nell’atto di nascita. Nata per andare oltre tutto quello che c’era in quel momento, vide i suoi esponenti non accontentarsi mai dell’ultima soluzione trovata, dell’ultimo posizionamento epistemologico. La scissione del gruppo di Milano contribuì poi a imprimere a quella storia il passo di una vera e propria schismogenesi: metà del gruppo si buttò a capofitto nella ricerca scientifica sulle famiglie, metà in quella dell’applicazione di principi costruttivisti e narrativi alla relazione terapeutica, e le due vie si divaricarono sempre di più e sempre più velocemente. Detto così sembra un percorso lineare: in realtà lo è stato ben poco, e anzi è stato molto discontinuo.
In una di quelle vie, secondo me, abbiamo trovato qualcosa che ha molto contribuito a rinnovare quella eccitazione. L’approccio sistemico passa normalmente per un modo di lavorare che ha cambiato l’approccio alla salute mentale mettendo al centro la relazione anziché l’individuo, eleggendo la prima come costitutiva del secondo anziché il contrario.
Ecco, è parzialmente vero ma non è tutto. È vero che è stato un passaggio non banale quello di allargare l’osservazione fino ad abbracciare sistemi anziché parti di essi. Ma il punto di discontinuità dell’idea sistemica, il salto concettuale veramente audace, arriva un po’ dopo. E sta nell’idea che l’osservatore in quei sistemi ci è dentro fino al collo.
Come si può capire, è questo che ha davvero conseguenze inaudite.
La citazione in apertura è di due noti autori che alla fine degli anni ’80 celebravano la “svolta linguistica” e costruzionista della terapia della famiglia. Forse quella critica del 1988 era, in quel momento, un tantino esagerata. Io quella “antica eccitazione” me la ricordo nei libri che leggevo negli anni ’90 e me la ricordo, da allievo prima e da didatta poi, anche per un segmento degli anni 2000. Mi ricordo la vivacità dei dibattiti, ricordo ribollire nel calderone della terapia concetti biologici, sociologici, letterari, musicali, artistici in senso ampio. Ricordo, mentre il tempo ci rubava la presenza dei Maestri, una generazione successiva che faceva esplodere il loro insegnamento in direzioni molteplici.
Di quella “antica eccitazione” ritrovo le tracce nelle conversazioni che ancora ho con certi colleghi e col Direttore della mia scuola, con gli altri docenti, con colleghi di estrazione simile o meno, ma coinvolti nell’approfondimento dell’eredità batesoniana applicata al miglioramento della vita e della salute delle persone. Nello stesso tempo, come dicevo nel mio articolo del 3 marzo scorso, la sento in parte soffocata da altre motivazioni. È stato bello ritrovarne una traccia, insieme a un rigore che conosco, a un modo di argomentare che mi emoziona sempre, in tutt’e tre gli interventi dei colleghi che hanno commentato quell’articolo. Sì, in modi diversi Gianluca Resicato, Massimo Schinco e Marco Bianciardi hanno parlato con la voce di quella antica eccitazione.
Resicato e Schinco hanno detto cose giuste sul fatto che un modello è sempre incarnato, ed è impossibile dire di un modello senza dire del singolo terapeuta che lo incarna: parlare di “modello” è parlare dell’applauso di una mano sola. E Bianciardi ha tracciato una distinzione importante a partire dall’asserzione “la mente e il cervello sono la stessa cosa” (che avevo riportato nel mio articolo, avendola ascoltata in un consesso professionale sistemico, vedendola come il sintomo di una perdita della bussola). Scrive Marco che quell’affermazione ha un senso dentro uno specifico, parziale livello di osservazione; e che il porsi su un livello o un altro, e il saperlo, e il dichiararlo, sono parte della responsabilità dell’osservatore.
Ora, se seguo la linea che si vede unendo i puntini di questi tre interventi, la linea che emerge è il tema della responsabilità.
Ci sono tanti altri puntini e tante altre linee, a dire il vero. Per citarne una: il ruolo del mercato in cambiamenti a cui a posteriori si dà una giustificazione teorico clinica. Per citarne due: una presa di posizione, non astratta ma quanto mai pratica e legata all’esperienza, sulla finalità cosciente in terapia; Resicato risponde alla mia affermazione sulla terapia che va al di là dell’insight del paziente e ricorda che la terapia ha effetto persino al di là delle intenzioni del terapeuta; Schinco passa da Sartre e da Jaspers per dire come la clinica sia il luogo dell’incertezza; e Bianciardi ricorda che se da una parte l’attività mentale non è se non ecologica, dall’altra i sistemi e i loro elementi sono caratterizzati da un certo grado di autonomia. Tutto questo rende francamente impossibile non pensare all’iniziale passione per le tecniche strategiche come a un pezzo di storia lontano anni luce, e agli innesti recenti nella didattica sistemica di tecniche di risoluzione di sintomi, di impianto neuropsicologico, come a tracce di un’ambiguità irrisolta.
Ma dicevo: il tema della responsabilità. Perché, se tutta la storia del secondo ordine, dell’osservatore e della complessità ha un senso, questo senso non sta nel decidere come porsi nei confronti di un qualche realismo ingenuo (che peraltro resta ingenuo anche senza essere postmoderni, ma direi persino anche senza essere sistemici) o nel vezzo di appiccicare il prefisso “co-” a verbi e sostantivi: è invece niente di più e niente di meno che l’assumere una posizione radicale di responsabilità.
Dicevo: la vera rivoluzione non è stata quella che ha sostituito i vecchi causalismi individuale e biologico con quello sistemico e relazionale, sebbene questo abbia costituito un salto di pensiero proficuo dalle influenze non indifferenti nelle pratiche cliniche. Il salto concettuale, quello audace per davvero, è stato quello dalla spiegazione della patologia alla cognizione che chi opera quella spiegazione è un osservatore che, nel momento in cui la formula, fa la realtà. La terapia diventa così una questione di costruire nuovi spazi di senso ancora più che di “capire” e “spiegare”.
Credo di non esagerare se dico che si tratta di una rivoluzione ancora in corso, che ci richiede di lavorare sodo e che ad oggi incide molto sul vocabolario che i terapeuti usano per parlare fra loro e non sempre altrettanto sui loro pensieri e sui loro atti.
È un work in progress, impegnativo per almeno tre ragioni.
- La prima, la più ovvia, è che questa cornice propone uno stravolgimento della prospettiva abituale. È un processo culturale difficile da accogliere nei sistemi di cura e che probabilmente è destinato a restare minoritario. La professione psicologica e in particolare lo specifico ambito della psicoterapia stanno dentro un mercato che diventa sempre più aggressivo, soprattutto a mano a mano che cresce il numero dei giovani professionisti che cercano legittimamente un posto al sole, o anche soltanto un posto, nel mondo professionale. La corsa per la vita sembra che si vinca offrendo interventi modellizzabili, risolutivi e non necessariamente complessi.
- La seconda ragione è che questa visione non genera più letteratura clinica, non genera un sapere condiviso tramandabile, proprio perché sposta l’accento sulla responsabilità del singolo terapeuta. E questo è probabilmente meno raccontabile, meno proceduralizzabile e meno utile all’indicizzazione delle pubblicazioni e alla ricerca quantitativa.
- Terza ragione è la ferita che questa prospettiva apre nell’identità di terapeuti che si sentono sicuri in una cornice che si rifà al pensiero medico e che conferisce il segno della “scientificità”.
Mi pare che alla rarefazione di certezze condivisibili si risponda da più parti con una fascinazione per le neuroscienze a cui dapprima si chiede la validazione scientifica di saperi antichi (con i neuroni specchio finalmente l’empatia è evidence based!) e poi nuovi attrezzi per un nuovo essenzialismo dei processi mentali. Si assumono i concetti di quella disciplina come dati di fatto, sospendendo il pensiero critico fino a trascurare che su di essi (sui neuroni specchio, sull’EMDR…) là fuori esiste un dibattito, e anche piuttosto interessante.
Là dov’era quell’antica eccitazione oggi si vede a perdita d’occhio un gran desiderio di sottomissione culturale.
La questione della responsabilità chiama in causa abbastanza direttamente quella della formazione dei futuri terapeuti, dal momento che nella cornice epistemologica che tentiamo di interrogare ormai da qualche decennio la questione chiave non è più cosa il terapeuta debba fare, ma come veda nel suo agire e come agisca nel momento in cui guarda. L’apprendimento diventa molto meno un apprendimento di tecniche e di prassi e molto più un addestramento alla conoscenza di sé stessi come osservatori, nella circolarità di emozioni, biografia ed epistemologia.
La questione della formazione personale è spesso sbrigata con affermazioni popolari quanto semplici, come: “i sistemici sono quelli che non fanno l’analisi”, o: “la terapia personale non è prescritta perché dev’essere una scelta”. Entrambe affermazioni di tale palese fallacia che non ci si fa una ragione della fortuna che continuano ad avere. Intendo che:
- dire che “i sistemici non fanno l’analisi” (guarda un po’, a proposito di subalternità culturale…), ha senso come dire che “i treni non hanno gli pneumatici” (sì, l’avevo scritto anche qui): equivale a valutare una cornice (quella sistemica) nei termini di un’altra cornice (quella psicoanalitica), a cui si attribuisce evidentemente un carattere di egemonia e che prevede che la “formazione personale” del futuro terapeuta sia un momento separato dalla formazione, diciamo, “tecnica”;
- la seconda affermazione (“la terapia personale non è prescritta perché dev’essere una scelta”) ha senso solo in un universo in cui ci si iscriva a una scuola di specializzazione sotto costrizione; siccome quell’universo non è il nostro, e la formazione in una direzione o in un’altra è una scelta (persino una “scelta d’amore”, dicevo nell’articolo da cui è cominciato tutto), no, l’argomento non ha senso; ha un certo effetto retorico quando lo si usa identitariamente per marcare una differenza dall'”analisi didattica” che è un obbligo per gli psicoanalisti, ma no, nemmeno nell’universo degli psicoanalisti si fa la formazione perché te l’ha prescritta il medico.
Quello che bisogna dire è che nella misura in cui la formazione sistemica si situa nella retroazione costante fra teoria e pratica, ed è sempre più un lavoro autoriflessivo, il “lavoro su di sé” non è un momento separato ma coincide in tutto con la formazione in aula (qui dicevo anche che altro è la facoltà di ciascun allievo di fare una terapia strutturata per sé, che resta comunque una scelta felice per ragioni che a mio avviso non sono le stesse per le quali si raccomanda o si prescrive in altre scuole).
Sempre nell’articolo precedente contrapponevo al mito della “integrazione” di teorie l’assunzione di responsabilità personale di una prospettiva epigenetica (per una breve spiegazione rimando a quell’articolo). Penso che la formazione dei terapeuti debba rivolgersi sempre più alla storia e alle cornici del professionista, alla rete di passioni e significati che dà senso alla sua esperienza. Penso che debba guidare ciascuno a identificare il proprio sistema metaforico, esplicito o implicito, attraverso il quale si dà senso alla relazione e alla cura: e dunque le proprie connessioni con l’arte, la letteratura, la musica, la narrativa, l’antropologia eccetera. Oppure a cercare le proprie connessioni per riempire quella “scatola vuota” (così Bertrando definiva la teoria sistemica), che è una cornice formale per descrivere processi, in cui mettere dei contenuti che ne facciano una pratica clinica: che per ciascuno può essere una teoria delle relazioni, la teoria dell’attaccamento, la teoria della retroazione, l’approccio strutturale, l’approccio narrativo, o una rete di tutte queste, o la psicoanalisi, o, se gli va, l’EMDR.
Ma è un percorso personale che non può essere tracciato da altri: quello che altri possono fare è accompagnare il futuro terapeuta in quel processo e in quella esplorazione della propria unica, irripetibile, rete di significati.
Grazie ancora ai colleghi che hanno detto la loro e a quelli che eventualmente lo faranno.